di Mattia Picca
Dagli stereotipi allo stigma nella contemporaneità
«Le deviazioni dal comportamento sessuale naturale non possono davvero soddisfare lo spirito umano». «L’omosessualità è degradante per la natura umana. Essere gay distrugge il senso stesso dell’essere umani». «Grazie a voi donne, che più che ai diritti pensate con amore ai vostri doveri». Rispettivamente Allan Carlson, autore e cofondatore dell’Howard Center; Jacopo Coghe, presidente dell’Organizzazione Internazionale della Famiglia; un semplice manifestante, presente al Congresso Mondiale delle Famiglie, svoltosi a Verona tra il 29 e il 31 marzo.
Queste sono solo alcune delle dichiarazioni sessiste e razziste esposte al World Congress of Families, che può essere riassunto in poche parole come un concentrato di oscurantismo culturale, estremismo politico e fanatismo religioso, dove dilagano stereotipi, pregiudizi e stigmi di vario genere e livello. Sfere, queste appena enunciate, che si intrecciano indissolubilmente con un’armonia inquietante e con alla base poche ma profonde pratiche sociali e ideologiche: l’omofobia, manifesta in ogni sua sfumatura – antropologica, clinica, liberale, burocratica e perfino parossistica – ; il patriarcato e relativa restaurazione della figura del pater familias, modello proclamato da movimenti e partiti dell’estrema destra continentale e intercontinentale; l’eteronormatività.
E in ognuna di queste strutture, da ognuna di queste pratiche, astratte e non, emerge la figura dello stereotipo. Per Walter Lippmann, politologo e giornalista statunitense, lo stereotipo sociale altro non è che una visione distorta e semplificata della quotidianità, della vita associata di tutti i giorni e che investe qualsiasi entità con cui entriamo in contatto, grazie alla quale costruiamo immagini mentali che ci permettono di semplificare il vissuto all’interno della società e della cultura. Un’etichetta, quindi, di comodo, portata avanti attraverso gerarchizzazioni socioculturali che possono aprire le porte al pregiudizio, uno stereotipo interiorizzato negativo, e alla sua degenerazione cognitiva finale, ovvero lo stigma, il declassamento di un individuo o di un gruppo sociale all’interno di una comunità, con lo sconfinamento nel razzismo e nella discriminazione, più in generale.
È interessante osservare, all’interno delle scienze sociali, come il sociologo canadese Erving Goffmann abbia elaborato una sorta di teoria dello stigma: un continuum persistente tra stereotipo, pregiudizio e stigma. Un filo sottile, quasi impercettibile, che si estende aggressivo in un arco temporale indefinito, in cui si creano categorie cognitive artificiali in base a scelte legate a determinate differenze, che possono essere sessuali, biologiche ed etniche per eccellenza, e che in genere vedono come protagoniste le minoranze della società. Una volta selezionati i soggetti, occorre costruire la gabbia e successivamente darle un connotato, un’etichetta: è qui che entrano in campo gli stereotipi negativi, le costruzioni sociali che orientano la realtà e che variano storicamente e geograficamente, producendo rappresentazioni del mondo distorte e tendenziose. Seguendo un taglio prettamente sociologico quindi, lo stereotipo può essere interpretato come un fenomeno normale e connaturato all’attività cognitiva degli individui e che risente, nella sua costruzione e nelle forme di identificazione che propone, sia del loro contesto socioculturale d’appartenenza, sia dei rapporti che si vengono a instaurare tra i vari gruppi della comunità. Così inteso, lo stereotipo si traduce in rappresentazione relativa e modellabile della vita associata, in quanto a fare effettivamente la differenza sono i riferimenti normativo-culturali della società, i gruppi di appartenenza, la loro origine e l’interrelazione che viene a costituirsi nel corso del tempo tra i differenti gruppi. Ciò comporta una distinzione, tornando alla teoria di Goffmann, tra categorie cognitive artificiali – ora stereotipizzate – e le categorie dalle quali è partito il processo di stereotipizzazione altrui, quelle categorie che si definiscono la norma assoluta. Il divenire storico, i ricambi generazionali, e quindi culturali e immancabilmente politici, senza l’intervento di adeguate forme di familiarizzazione ed educazione, porteranno alla stigmatizzazione dell’individuo o del gruppo, mettendolo alla berlina, ghettizzandolo, limitando la propria vita associata in ogni suo aspetto, relegandolo a determinate funzione imposte dalla normalità.
La pratica del rinforzo, riportata nel saggio del 1974 di Eleanoir E.Maccoby, The Psychology of Sex Differences, è una delle modalità di maggior impatto con le quali i ruoli di genere – e consequenzialmente gli stereotipi di genere – vengono a costituirsi. Una vera e propria pressione psicologica, in cui gli adulti incentivano i bambini a seguire un determinato comportamento attraverso premi e punizioni, scoraggiando quelli ritenuti impropri e immorali, instaurando il meccanismo dello stereotipo.
Il soggetto o la moltitudine di soggetti nel corso del tempo, a questo punto, si trovano dinnanzi a un bivio che ha subìto nel corso dei secoli e dei decenni un processo di inversione e di trasposizione per quanto concerne le due strade possibili: l’essere attivi o passivi di fronte alla gerarchizzazione, alla stereotipizzazione e alla successiva stigmatizzazione. Possiamo individuare tre modalità di reazione: il silenzio – l’omosessuale ad esempio, per paura, vergogna o insicurezza, tiene nascosta la propria identità, limitandosi a un ristretto coming out –, l’attuare tecniche di neutralizzazione, volte in genere alla giustificazione, come accade soprattutto nei casi di devianza sociale, e la formazione di reti di aiuto comune tra gruppi stigmatizzati, omogenei o eterogenei, come avviene spesso tra la comunità Lgbtqi+ e i gruppi/movimenti femministi, accompagnata dalla sovversione delle strutture stereotipizzate.
Le vicende del 3 aprile 2019 a Torre Maura, Roma, esemplificano in maniera semplicistica la pratica della stereotipizzazione messa in atto da alcuni movimenti ed esponenti della destra estrema romana nei confronti di un residente di quindici anni, che ha avuto il coraggio di affrontarli a difesa di circa settanta rom trasferiti nel centro di accoglienza della zona, vittime di insulti, violenza e minacce di morte. Dopo uno scambio di battute, di riflessioni apolitiche, di buon senso e di umanità, il quindicenne è stato associato alla sinistra, ai famigerati “buonisti”, ai “sorosiani” di ferro, quasi a essere un bolscevico. Evidente l’uso della logica del nemico da catalogare, da etichettare, da ghettizzare e demonizzare per denigrarlo e renderlo carne da macello per i nazionalisti e gli estremisti dei social. E la reazione, la sovversione agli stereotipi e allo squallore squadrista, attraverso anche la rete, ha funzionato.
Dopo aver fatto un’esposizione su cosa siano stereotipi, pregiudizio e stigma, e su come si dia vita al processo di esclusione, di erezioni di muri sociali, torniamo ad alcune delle dichiarazioni portate avanti al Congresso Mondiale delle Famiglie, sopraesposte, e cerchiamo di analizzarle.
Storie
Leggendo le prime due affermazioni sostenute dai due relatori del Wfc, possiamo trarre poche ma semplici e concise conclusioni su come l’omosessualità venga vista oggi da circa il 10% della società italiana – dati Ilga del 2016: escludendo la percentuale di risposte neutrali, il 74% della popolazione non considera l’omosessualità come un crimine e quindi come un reato –: appartenere alla comunità Lgbtqi+ equivale a essere figli del demonio, individui malati, depravati e inutili per la società; persone deviate che non possono essere felici, a causa del proprio spirito corrotto.
La Rainbow Map stilata nel 2019 da Ilga-Europe per descrivere il livello di rispetto e di tutela dei diritti delle persone Lgbtqi+ in Europa è tuttavia allarmante: l’Italia è, su quarantanove Paesi presi in esame, al trentaquattresimo posto, segnando così per la prima volta una retrocessione in termini di leggi, di politiche legate all’uguaglianza e di linguaggi e atteggiamenti istituzionali.
La stessa Silvana De Mari, dottoressa e scrittrice presente come relatrice al Wfc, non fa fatica alcuna ad ammettere che «la sodomia sia un gesto di violenza e di sottomissione al punto tale che viene praticato nelle iniziazioni sataniche», accostando pertanto l’omosessualità a pratiche esoteriche che andrebbero curate – non a caso, in svariate interviste, De Mari ha affermato di aver curato oltre il 60% di gay, nonostante le terapie di conversione siano state scientificamente smentite. Ed essendo un’anomalia, una malattia, per contagio psicologico tutti quanti diventerebbero o potrebbero diventare omosessuali. Dando credito alla spiegazione psicologica, una delle teorie sulla differenziazione dell’orientamento sessuale. È importante sottolineare come su questa teoria convergano tuttora i sostenitori delle terapie di conversione, secondo i quali l’omosessualità sarebbe un’alterazione dell’orientamento dallo stato di default, generalmente identificato con l’eterosessualità – l’eteronormatività –, per via di accadimenti anomali come traumi, abusi o comportamenti particolari, senza i quali non si sarebbe mai maturato un orientamento diverso. Inutile osservare come questa visione sia inquadri l’omosessualità come patologia matrice di sofferenza, infelicità e di persone contronatura. Un cane che si morde la coda, un circolo senza né inizio né fine.
Ma tra gli stereotipi negativi massimi che etichettano la comunità Lgbtqi+ come male della società e sua rovina principale vi è quello legato alla pedofilia, utilizzato il più delle volte da partiti di estrema destra – ne è un esempio, tra innumerevoli, lo striscione di Forza Nuova del 2018 contro il Rimini Pride: «omosessualità oggi, pedofilia domani», o Fratelli d’Italia che, nel consiglio Regionale dell’Emilia Romagna, durante la discussione della legge contro l’omofobia, ha accostato l’omosessualità alla necrofilia, alla zoofilia e alla pedofilia –. Come sottolinea Brian Brown, presidente dell’International Organization for the Family, «le pulsioni omosessuali si possono riparare», accusando nel 2016 Barack Obama di averla addirittura normalizzata. Le pulsazioni omosessuali spingerebbero il gay o il trans* a infierire sessualmente sui membri più vulnerabili della società, attivando un senso di pericolo e deprecazione sociale. La percezione dell’individuo Lgbtqi+ pedofilo, dal quale si snoda la strada verso la discriminazione, e quindi l’omofobia, viene tuttavia distrutta da ricerche cliniche e sociologiche in merito: la stragrande maggioranza dei casi di abuso su minori, una percentuale citata superiore al 90%, sono perpetrati da maschi eterosessuali che hanno rapporti sessuali non consensuali con femmine. Eterosessuali maschi, con una famiglia al seguito, in genere familiari o conoscenti della vittima.
Anche per quanto concerne gli stereotipi sulle donne, la situazione è critica.
Nella violenza maschile contro le donne uno degli stereotipi fenomenici più diffusi è il seguente: la violenza riguarda il rapporto tra i partner e quindi va affrontato con un intervento terapeutico di coppia o un percorso di mediazione familiare. Il ricorso all’intervento del mediatore familiare è uno dei punti fondamentali del discusso Ddl 735 della XVIII legislatura italiana, meglio noto come Ddl Pillon, esposto e acclamato al Wfc. La mediazione familiare, oltre a non tutelare le donne vittime di violenza – costringendole a un confronto diretto col partner per l’affidamento dei figli o delle figlie, andando contro l’articolo 31 della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne –, accentua il gender pay gap, ovvero il divario retributivo tra uomini e donne, svantaggiando così le donne, il cui tasso di occupazione è del 49%, con un reddito annuo di circa 14.182 euro, il 24% in meno rispetto agli uomini – dati Istat 2014 –, scendendo al 23% con i dati delle Nazioni Unite del 2018. Ma al di là degli aspetti economici e burocratici, il messaggio implicito dello stereotipo sopra riportato è che entrambi i partner hanno parte in causa rispetto al problema e uguale responsabilità e possibilità di azione in ordine al cambiamento. Le sfaccettature sono molteplici: nello scenario della mediazione, il maltrattante può scoraggiare la vittima dal parlare delle proprie preoccupazioni e della propria sicurezza, portandola a un atteggiamento passivo e di omertà, occultando le violenze perpetrate dal maltrattante; inoltre, non è da escludere la reiterazione della violenza psicologica nei confronti della vittima per via dell’atteggiamento manipolativo, colpevolizzante e alle volte coercitivo del carnefice.
Rimanendo nella sfera della violenza ai danni delle donne, sono largamente diffusi commenti stereotipizzati come quello della donna problematica o della donna che se l’è cercata.
Per stereotipo, la donna viene caratterizzata sempre da connotati legati alla fragilità e alla vulnerabilità. Tuttavia, non esiste una tipologia specifica di donne vulnerabili alla violenza. Stando ai dati Istat del 2007, le vittime sono in prevalenza laureate, imprenditrici, libere professioniste e diplomate, smentendo lo stereotipo secondo il quale le donne più a rischio sarebbero quelle con scarsi strumenti culturali ed economici di autoaffermazione – per esempio, secondo un’indagine Cpo-Fnsi, ben l’85% delle giornaliste sarebbe stato vittima di molestie sessuali. È chiaro che eventuali fragilità psicologiche e difficoltà socioeconomiche possono complicare la situazione, rendendo più complesso alla donna riconoscere l’abuso e individuare le risorse per porvi fine, ma di certo non rappresentano in alcun modo segnali dell’esposizione alla violenza domestica. Nel luogo comune della donna che rimane con l’uomo che la maltratta solo perché desidera quel tipo di rapporto, ad esempio, avviene un errore di giudizio, all’interno del quale si scambiano le conseguenze psicologiche dell’abuso con il masochismo o con la predilezione per rapporti conflittuali come aspetto caratteriale. Lo stabilire una continuità relazionale con chi compie la violenza – o una nuova relazione con differenti uomini violenti nel corso della propria vita – va riconosciuto come possibile indicatore di un trauma non elaborato. Judith Lewis Herman, nel 1992, sottolinea come affrontare più volte il trauma può essere un modo per provare a dominarlo emotivamente, resistendo e combattendo all’interno di uno scenario in cui ci si era sentite impotenti e colpevoli, in passato. Questo se non si è state sostenute nel comprendere le dinamiche e gli effetti dell’abuso e nel ricostruire la fiducia in sé stesse e capacità di autoprotezione.
Per le donne che se la sono cercata, invece, dedicherò un paragrafo dettagliato a parte, con riferimenti dedicati prettamente al mondo dell’informazione mediatica, dalle campagne di sensibilizzazione alle semplici immagini di denuncia. Mi limiterò a indicare qui di seguito lo stereotipo del trinomio sicurezza pubblica-prudenza femminile-inasprimento pena.
Secondo il senso comune, una donna corre un rischio maggiore di subire violenza in luoghi isolati e malfamati, generalmente durante le ore notturne e perpetrati da sconosciuti e stranieri. Ma anche per questo stereotipo, incontriamo delle controprove statistiche che lo smentiscono in toto. In Italia – Istat 2007;2015 – a commettere le violenze più gravi sono compagni, mariti e fidanzati: il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente. Quelli commessi da estranei rappresentano lo 0,9% dei casi, 3,6% per il tentato stupro. La soluzione irrisoria della maggiore prudenza dettata alla donna implica una limitazione della vita associata della donna, e quindi della sua libertà e della sua espressione, spostando il focus della responsabilità nuovamente sulla vittima. Inoltre, le politiche di inasprimento della pena per i reati di violenza sessuale attuate dai governi non incidono in alcun modo sulle radici culturali del problema e non prevengono possibili recidive. Proprio per questo motivo, l’Onu e il Consiglio d’Europa – rispettivamente attraverso la Dichiarazione sulla violenza contro le donne, 1993, e la Raccomandazione Rec 2005 – hanno invitato gli Stati ad attuare interventi di prevenzioni all’interno di contesti socioeducativi, tramite il riconoscimento dell’abuso e l’assunzione di responsabilità. Lo stesso art.16 della Convenzione di Istanbul stabilisce la necessità di adottare misure legislative che rendano possibili interventi rivolti agli uomini da attuarsi in coordinamento con servizi sociali dedicati al sostegno alle vittime, come ad esempio i centri antiviolenza.
Prima di concludere e passare all’analisi degli stereotipi nei media, è doverosa una considerazione sugli stereotipi relativi agli uomini autori di violenza di genere, citando in causa la sentenza del 2 marzo 2019 della Corte d’appello di Bologna.
Il 5 ottobre 2016, a Riccione, viene brutalmente assassinata Olga Matei, strangolata a mani nude dal compagno cinquantaquattrenne Michele Castaldo, reo confesso dell’omicidio. Dalla condanna di 30 anni – ergastolo ridotto per il rito abbreviato – ricevuta in primo grado, nonostante sia stata riconosciuta l’aggravante di motivi abietti e futili, i giudici sono scesi a 16 anni concedendo le attenuanti generiche, in quanto l’assassino sarebbe stato in preda a una tempesta emotiva.
La gelosia, secondo la sentenza, avrebbe determinato nell’uomo, a causa delle sue poco felici esperienze di vita, quella che il perito psichiatrico ha definito una vera e propria soverchiante tempesta emotiva e passionale, confluita poi nel brutale omicidio. In questo caso, il raptus emotivo – improvviso impulso in grado di privare il rapito di lucidità e capacità di discernimento –, dovuto da uno stato di iper-gelosia, diviene movente del gesto. Alludendo a questo cortocircuito mentale, si finisce con il nascondere la vittima o, in altri casi, con l’additarla di tradimento, scarsa attenzione nei confronti del partner, allontanamento fisico o sentimentale, assolvendo socialmente l’omicidio o attribuendogli considerevoli attenuanti, giustificando quasi la brutalità dell’omicidio, attenuandolo eticamente, culturalmente e socialmente e portando quasi a uno sdoganamento dell’atto.
Riassumendo, simili stereotipi di genere serpeggiano costantemente nella mentalità contemporanea e nella società, definizioni culturali rigide sui ruoli di uomini e donne nella sfera pubblica e in quella privata; su quali comportamenti ed emozioni si possano considerare appropriati, accettabili o desiderabili per l’uno o per l’altro. Come direbbe Foster Wallace, sono uno sfondo di cui ordinariamente non siamo coscienti, ma dentro al quale ci muoviamo e scegliamo. Ciò ha delle ovvie ricadute sulle libertà individuali e sulla definizione del sé e dell’altro come soggetto di valore o meno, e in tutti i casi riportati precedentemente, individuiamo quei processi – descritti dagli psicologi sociali Douglas Krull, Brett Pelham e Daniel Gilbert nel 1988 – di categorizzazione – prendere in considerazione le caratteristiche fisiche e comportamentali dell’individuo –, di caratterizzazione – inferire le caratteristiche disposizionale che hanno potuto stimolare un determinato comportamento – e di correzione – considerare le variabili situazionali che possono aver stimolato quel comportamento. Ciò contribuisce, di conseguenza, a definire ciò che è ritenuto plausibile o intollerabile nei rapporti uomo-donna, con una probabile tolleranza della violenza maschile e le diverse forme di oggettivazione della donna nei media, ovvero a una sua perdita di emozioni, stati d’animo, sentimenti. Un oggetto come tanti, strumentalizzabile e sfruttabile a proprio piacimento. Stefano Ciccone parla infatti di una sessualità maschile ridotta alla dimensione del consumo e del dominio corporeo e psicologico altrui: nella costruzione sociale del maschio, l’uomo è indotto a percepire il proprio corpo come qualcosa da imporre e usare come strumento di violenza e degrado. Utilizzando un’espressione di Mario Mieli, «il capitale propaganda l’alienazione dell’amore»: la donna oggettualizzata e stereotipata non è la donna, bensì la negazione della donna, e il maschio fallico e deficiente non è l’uomo, ma contemporaneamente negazione dell’uomo e della donna stessa – tramite l’educastrazione e l’eterosessismo, l’uomo subisce una sorta di evoluzione involutiva, reprimendo durante la crescita il polimorfismo perfetto, l’istinto omosessuale, condannandolo poi per paura irrazionale e per imposizione esterna.
La virilità dell’uomo rientra a pieni titoli nelle spiegazioni sociologiche, psicologiche ed essenzialiste sulla violenza maschile, che è il danno collaterale di una certa concezione della virilità stessa basata sin dall’antica Grecia sulla figura dell’eroe guerriero e sulla figura sociale alfa. Il nesso che intercorre tra esasperazione degli stereotipi di genere e violenza è da individuare, secondo la psicanalista Marie-France Hirigoyen, nel concetto di potenza appresa nell’esperienza dei maschi già dalla tenera età. Quindi, la diffusione del binomio stereotipo genere-violenza sarebbe la conseguenza di processi educativi e culturali che conducono a riconoscersi appartenenti di diritto al genere maschile solo tramite la negazione e l’espunzione progressiva di parti di sé in quanto ritenute minacciose per la propria esistenza, associate poi storicamente a un femminile disprezzato o a un maschile che devia dagli standard di virilità. Disprezzo e diniego che riconducono, immancabilmente, a una prevaricazione corporea, economica e sociale sulle donne e a un disprezzo per l’omosessualità, portando nell’intera comunità disuguaglianze, differenze, distanze e prevalenza dell’eteronormatività. Aspetti, questi, ampliamente diffusi, dalla cultura mediale.
Genere, violenza e stereotipi nell’immaginario mediale
Abbiamo detto al principio che lo stereotipo è la costruzione di tendenziose immagini mentali che, in base a determinate caratteristiche estetiche, psicologiche, politiche, culturali etc., inquadrano un individuo o un gruppo di individui, costituendo una gerarchizzazione di una comunità –minoranza – e relativa etichettatura sociale. Il processo di formazione degli stereotipi di genere, e successivamente loro rappresentazione, sono alla base del marketing pubblicitario e dell’immagine della società all’interno del sistema mediale, in quanto la pubblicità propone – o impone, nel peggiore dei casi – modelli di comportamento e relazioni di potere, distorcendo la nostra immaginazione e costruendo i nostri desideri. Si può parlare effettivamente di una vera e propria coercizione sociale, all’interno della quale le forme dominanti di maschilità e femminilità vengono sessualizzate o eterosessualizzati nel caso dei corpi Lgbtqi+ e venduti per meri processi economici, di marketing. Il corpo femminile, ad esempio, subisce uno sguardo fortemente genderizzato: le donne sono condannate a provare continuamente uno scarto tra corpo reale e corpo ideale, sponsorizzato con enfasi dalla cultura mediatica attraverso la mercificazione del corpo femminile.
Nelle prime pubblicità post Seconda Guerra Mondiale, lo stereotipo della donna consumatrice è direttamente collegato alla sfera domestica: un semplice corpo che si prende cura della casa e della famiglia, con amore e dedizione totali. Inerme, al servizio del proprio uomo, in un mondo patriarcale e maschilista.
Ne è un esempio la réclame del 1951 sulle cravatte Van Heusen. La didascalia parla da sola: «mostrale che è un mondo da uomini». E la raffigurazione della donna inginocchiata davanti al letto, col vassoio della colazione per il marito, soddisfatto e rilassato nel letto, con una camicia bianca e una cravatta alquanto kitsch, ci spinge ad aggiungere l’espressione “per uomini” insieme a quella originale, delineando la posizione sociale della donna di quegli anni: moglie, massaia e madre devota – il suo sguardo nella pubblicità cattura alla perfezione tutto ciò – alla figura predominante e maschile della casa e della famiglia, lontana dai lavori di chi detiene il potere politico, sociale ed economico. Un sessismo pubblicitario e culturale che segrega la libertà delle donne e che verrà scosso dai movimenti della Seconda Ondata Femminista degli anni 60-70.
È solo in un secondo momento che il corpo delle donne viene sfruttato per rendere accattivante il prodotto da vendere, con l’esposizione violenta e d’impatto delle curve femminili, risaltando il volume, gli sguardi intriganti e provocatori. Siamo dinnanzi all’effetto sirena della femminilità, dove l’intimità femminile diventa merce di un sistema capitalistico e neoliberista, dove la rappresentazione del corpo viene spacciata per libertà di espressione, alla quale vengono contrapposte al massimo barriere autoritarie di tipo censorio.
Una delle innumerevoli conseguenze di questo sistema consumistico prettamente incentrato sul marketing è l’appannaggio maschile e delle classi dominanti, che detengono potere economico e politico su cosa sia la bellezza femminile: il loro gusto, la propria preferenza, diventano forma dominante di bellezza. Un’imposizione di un certo modello femminile, la dittatura della bellezza. Basti pensare al ritratto di Barbie e alla sua immagine che nel corso dei decenni ha catturato l’attenzione di intere generazioni – un corpo fiabesco e principesco, perfetto in ogni connotazione estetica e fisionomica, da imitare e da raggiungere a ogni costo –; o alla pubblicità L’Oreal n cui viene immortalata una sorprendente Kate Moss recitante il mantra “perché io valgo”. La ricerca della bellezza è un dovere verso il proprio lavoro, la propria dignità, il proprio successo, senza indagare sui depotenziamenti verso le donne e sull’esclusione sociale delle donne disabili, escluse in qualsiasi forma pubblicitaria.
Ciò che più conta nell’analisi delle pubblicità e del materiale mediale, al di là delle esigenze di mercato, è l’ideologia che vi è dietro e che vuol farci cambiare atteggiamento, «modellando la natura della consapevolezza sociale e dell’opinione pubblica» – Ciaran McCullagh, 2002. Gaye Tuchman parla addirittura di un annientamento simbolico delle donne perpetrato dai mezzi di comunicazione di massa, con un linguaggio utilizzato abbastanza forte, mettendo alla luce nel 1977 tre dati socialmente inaccettabili nelle pubblicità statunitensi:
- Le donne rispettate all’interno del sistema mediatico sono pochissime;
- La rappresentazione mediatica della femminilità distorce lo status delle donne nel mondo sociale, presentandole come modelli di ruolo non praticabili;
- Il modello femminile interiorizzato ed esposto dai media, deteriorato e stereotipato, impedisce la realizzazione delle donne e incoraggiano sia le stesse donne che gli uomini a definire il mondo femminile come oggetti sessuali, mogli e madri.
Gli effetti del terzo punto si stanno manifestando nella cultura giovanile delle donne in India, dove le pubblicità stanno insegnando alle ragazze a considerare i commenti maschili sul loro aspetto fisico come complimenti, reagendo con garbo ad approcci molesti. Ciò comporta una trasformazione anche dell’educazione verso il maschio, il quale sta abbandonando l’ideale del ragazzo timido e romantico, per abbracciare lo stereotipo del macho, dell’uomo forte e virile che sa mentire e manipolare. Ne è un esempio lo spot indiano della catena Kfc del 2011.
Riprendendo Goffman, nell’opera Gender Advertisement del 1979 elenca degli indicatori che illustrerebbero la subordinazione femminile e l’infantilizzazione delle donne nelle pubblicità. Tra questi troviamo il tocco femminile – dicotomia dell’uomo che afferra e della donna che accarezza o che prende delicatamente un oggetto –; le azioni della vita quotidiana, dove la vita associata delle donne è limitata ai lavori domestici, di cura famigliare e ai compiti esecutivi; i ruoli familiari e la ritualizzazione della sottomissione, dalla postura, agli sguardi al linguaggio utilizzato, generando quella che Vincenzo Cesareo, nel 2007, ha definito distanza sociale. Ovvero, l’indisponibilità e la chiusura relazionale e variabile di un soggetto nei confronti di altri, percepiti e riconosciuti come differenti sulla base della loro riconducibilità a categorie sociali.
Questa distanza sociale è rintracciabile nello spot che Trenitalia ha sponsorizzato per la promozione delle nuove formule di viaggio sui Frecciarossa, attraverso i quattro livelli di servizio: standard, premium, business ed executive. Vere e proprie isole di identità che ghettizzano ideologicamente, attribuendo a ogni classe sociale i suoi segni distintivi, e fisicamente, sigillando i differenti vagoni, impedendo ai passeggeri di poter passare da un livello all’altro i passeggeri. L’immagine qui riportata rappresenta la classe standard, nella quale viaggia una famiglia di immigrati. Nell’executive è immancabile invece la figura maschile di successo, d’élite, bianco. La distanza sociale ed economica nel messaggio classista e razzista è servita.
Rimanendo in tema, anche le catene di abbigliamento contribuiscono, attraverso determinati slogan, ad accentuare la distanza sociale ed economica tra singoli individui. Dai grandi magazzini Claire’s, con lo slogan «c’est la classe», a Manor Abbigliamento Donna – «dai stile alla vita» –, arrivando a un semplice cartellone pubblicitario per il “Sicilia Fashion Village”, avere classe, stile ed essere ricchi è un dovere sociale. Gli scalini dell’alta borghesia e dell’élite si raggiungono seguendo il modello delle pubblicità che introduce il divario socioeconomico, scartando a priori le merci fittizie e di imitazione e acquistando solo capi e prodotti firmati.
Figura 2 – L’alta moda irresistibile – Sicilia Fashion Village). Ciò che rende irresistibili, socialmente accettati e unici è l’acquisto di grandi marche di capi d’abbigliamento di alta moda.
Seguendo questo ragionamento, nell’ambiente domestico a subire la distanza sociale è la casalinga che vuole risparmiare, rappresentata come maldestra e gretta. Atteggiamento tipico delle pubblicità di elettrodomestici o prodotti a essi relativi, come le reclami della Calfort e del Dash: il prezzo maggiore rappresenta una qualità maggiore, e tra gli obiettivi primordiali di una brava e solerte massaia vi è quello di ottenere un bucato dal bianco impareggiabile. Lo scambio quantitativo di prodotti – due prodotti di sottomarca al costo di uno – è rifiutato, e chi lo asseconda diviene invisibile per le pubblicità, senza tener conto di chi non appartiene alla classe media o del lavoro salariato fisso in netto calo, con aumento esponenziale della disoccupazione, della sottoccupazione e dell’inoccupazione giovanile – e relativa emigrazione. Realtà sociali snobbate nelle reclami, che si focalizzano sulla rappresentazione della classe media, formando un’opinione pubblica all’interno della quale il ceto medio eterodiretto è un orizzonte da raggiungere, una normalità da realizzare a tutti i costi. Il che comporta, il più delle volte, a una sovraesposizione del lusso, dello stereotipo della donna estetizzata, della donna-trofeo, oggetto di lusso da esibir, diventando status symbol per i loro uomini. E se da una parte abbiamo il modello femminile oggetto, dall’altra abbiamo il maschio rude che ama il pericolo, il rischio, le forti emozioni, ben esplicitato nella pubblicità dell’Amaro Montenegro – che ha lanciato l’hashtag #eroiveri nel 2018 –, con aitanti uomini pronti a salvare cavalli o recuperare vasi preziosi in un clima avverso. I protagonisti sono uomini d’azione affascinanti, coraggiosi, veri e propri leader, personaggi che tutti vorrebbero essere, che vorrebbero emulare; e il prodotto reclamizzato si abbina solo a chi ha queste determinate qualità. Il sex appeal di questi corpi spettacolarizzati e pubblicizzati è mezzo che permette di ottenere l’ambita disponibilità femminile, che aspetta solo di essere raccolta, come nello sponsor «It’s string time» dell’intimo Sloggi, con un incredibile abuso dell’immagine femminile e annientamento della dignità della donna.
Non bisogna tuttavia dimenticare che i modelli precedentemente descritti – tendenzialmente bianchi, eteronormativi e rappresentanti della middle class – all’interno delle pubblicità possono essere ridefiniti e rimodellati all’occorrenza tramite la messa in relazione con altri modelli di mascolinità e/o femminilità, in base al potenziale acquirente del prodotto. Nei paragrafi a seguire, verrà posto in analisi il sistema sessismo/razzismo negli spot pubblicitari e, per concludere, l’eteronorma e l’immaginario Lgbtqi+.
Stereotipi razzisti e sessisti – più in generale, razzismo e sessismo – funzionano come la logica della differenziazione e naturalizzazione, i processi che portano allo stigma, sfociando poi nelle costruzioni sociali della razza e del sesso, le quali non rappresentano una realtà empirica. Ai soggetti razzizzati e/o alterizzati, quindi, viene attribuita una inferiorità sociale attraverso l’incrocio di determinati caratteri – culturali, psicologici, sociali, politici, di identità e orientamento sessuale – con talune caratteristiche fisiche biologiche evidenti.
Nel 2008, Vogue Italia pubblica il numero The Black Issue, dove vengono immortalate solo ed esclusivamente bellezze black da Steven Meisel, denunciando il razzismo nell’industria della moda e del commercio pubblicitario. Un razzismo fashion, che si manifestava nella frequente richiesta di non inviare per i casting modelle etniche in quanto fonti di scarso o nullo guadagno. La stessa Naomi Campbell aveva denunciato l’enorme difficoltà delle modelle non bianche di sfondare nel mondo della moda, e di come i loro guadagni sarebbero stati comunque inferiori a quelli di modelle bianche come Kate Moss o Linda Evangelista.
Tuttavia, viene rilevato come ai lunghi periodi di invisibilità dei soggetti non bianchi si siano alternati lunghi momenti di rappresentazione relativamente di massa, in particolar modo nei casi di pubblicità della moda e dell’abbigliamento. Una dispersione temporale della raffigurazione mediatica dei soggetti black che si può interpretare come una manipolazione utilitaristica e occasionale del diverso e il segno oggettivo della sua marginalizzazione, animalizzazione e della sua esclusione, sintomo di rapporti di potere, sfruttamento e disuguaglianza che hanno caratterizzato la relazione tra soggetti dominanti e dominati.
Una delle raffigurazioni più interessanti e di denuncia degli stereotipi razzisti e sessisti è l’anti-pubblicità dell’artista David LaChapelle del 1999, Have you seen me?.
Naomi Campbell è nuda sul pavimento, i piedi poggiati su di un frigorifero aperto, circondata da cubetti di ghiaccio, mentre versa sul proprio corpo un catone di latte. Il corpo femminile nero, in questo contesto pubblicitario di denuncia, rappresenta la sessualità sfrenata e bollente – il ghiaccio serve proprio ad attenuarla – e la totale disponibilità sessuale suggerita dalla posa assunta. Il bianco del latte ha duplice significato: da un lato, esso è simbolo dello sperma maschile; dall’altro è la riproposizione della procedura di razzializzazione che tende a far emergere il contrasto cromatico delle due entità.
Ci sono poi pubblicità dove le donne nere sono quasi sempre collocate in un’ambientazione animalesca e selvaggia, come a sottolineare una specifica connotazione caratteriale e psicologica del soggetto femminile rappresentato. È emblematica la pubblicità di Jean Paul Gaude, Jungle Fever del 1982, con una Grace Jones ritratta in una gabbia chiusa come una bestia feroce tra pezzi di carne sanguinolenta; oppure, molto più recente, quella di Vogue del 2008, The Black Issue, dove la modella somala Ubah Hassan indossa un tessuto leopardato che fa subito scattare l’associazione tra donne nere, animalità e sessualità selvaggia.
Utilizzata anche in altri settori pubblicitari – specialmente in quella alimentare –, questa forma di animalizzazione mediale è spesso utilizzata dalla propaganda politica estremista, dove gli uomini e le donne non bianche sono vengono presentati con lineamenti scimmieschi e primitivi, dando l’idea di individui sottosviluppati che potrebbero rappresentare una serie minaccia per la società eteronormativa e bianca. Così, i due modelli di femminilità, bianca e nera, sono usati uno contro l’altro, a seconda del messaggio che si vuol trasmettere, dove il dominio dell’una serve a definire il privilegio dell’altra – o dell’uomo che la possiede/vorrebbe possederla –, allargando il divario sociale ed economico di rappresentazione dei soggetti. Soggetti che hanno due differenti stereotipizzazioni ma che rimandano in ogni caso a un unico concetto: quello di sessismo.
L’eteronormatività, definita da Mario Mieli come norma monosessuale o educastrazione, descrive le norme societarie fondate sull’istituzione dell’eterosessualità come colonna portante delle relazioni sessuali, sentimentali e sociali. Di conseguenza, si configura come un sistema binario sessualizzato e genderizzato che crea una linea netta di demarcazione tra maschile e femminile, tra uomo e donna e tra i loro ruoli. È presente nel linguaggio – per esempio, le caselle dei moduli con le sole voci uomo o donna, o le icone che indicano la presenza di una toilette –, nelle legislazioni che discriminano le unioni omosessuali, la sodomia o l’omosessualità in generale – fanno scalpore le persecuzioni portate avanti in Cecenia e Armenia, e la legge del 2019 che prevede la lapidazione per il reato di omosessualità in Brunei Darussalam. Ciò che deve mantenersi integra è la famiglia mononucleare ed eterosessuale; tutto il resto, rappresenta una deviazione dalla natura, un peccato religioso, una malattia. E questo binarismo sessuale innato è il fulcro delle disuguaglianze politiche, sociali ed economiche, in quanto rafforza una diversità sociale basata esclusivamente sulla differenza sesso/genere e sul dominio maschile, normalizzando l’eterosessualità imposta.
I dispositivi pubblicitari presentano l’esperienza Lgbtqi+:
- in opposizione alla normalità eterosessuale, rendendola quindi un’esperienza anomala, anormale;
- nei suoi stereotipi e pregiudizi classici, relegando il gay, la lesbica, il trans e il bisessuale all’interno di una sfera sociale a sé stante, con propri stili di vita e proprie mode;
- eterosessualizzata, affinché la sfera del rappresentabile coincida con quella dell’ammissibile, inserendo l’esperienza Lgbtqi+ all’interno della soglia di accettazione sociale.
Lo spot del 2011 della Barilla fa leva proprio sulla famiglia, che si riunisce a pranzo davanti a un piatto abbondante di lasagne.
La nostra linea di partenza è la famiglia. A volte ti protegge, altre ti incoraggia. A volte non vedi l’ora di averne una, altre nessuna. [..] ma quando sei seduto lì in mezzo – al tavolo, insieme a tutti, davanti alla lasagna), ti accorgi che per sentirsi liberi occorre avere radici.
La liason prodotto commercializzato/famiglia tradizionale è riuscita: l’unico gruppo familiare accettato è quello monoculturale, bianco ed eterosessuale, rafforzato dall’immagine di due adolescenti – maschio e femmina ovviamente – e dai propri parenti. Il resto è anormalità, e a ricordarcelo è lo stesso Guido Barilla nel 2013, che a Radio Zanzara affermò che «non faremo pubblicità con omosessuali perché a noi piace la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca». E così ho fatto.
Adrianne Rich, nel 1985, parla di eterosessualità obbligatoria, e obbligata a mio avviso, imposta da una cultura monodirezionale che si manifesta già nell’infanzia con articoli ricreativi, come i giocattoli, binari: rosa per le femminucce, azzurro per i maschietti. L’obbligo all’eterosessualità è una costrizione sociale imposta dal patriarcato, attraverso l’utilizzo di abusi e stupri nel peggiore dei casi, che permette di continuare lo sfruttamento fisico, economico ed emotivo delle donne.
Con riferimenti alla conversione dell’orientamento sessuale attraverso l’abuso, non posso non citare il caso della ragazza di 15 anni, stuprata e violentata dal padre solo perché lesbica. Francesca – il nome della ragazza – decide di denunciare la violenza fisica e psicologica solo all’età di 23 anni, nel 2019, raccontando di come il padre, spogliandosi, prima di violentarla, le avesse detto: «tu queste cose devi guardare, non le donne». Dopo tre tentativi di suicidio e continue violenze – «meglio una figlia morta che lesbica» –, Francesca è riuscita a fuggire, esponendo denuncia contro i genitori, difesi e protetti dall’omertà del piccolo paese in cui vivevano in Sicilia.
Tornando all’analisi delle immagini pubblicitarie, anche il marchio Mulino Bianco – sempre del gruppo Barilla – ha incentrato le sue prerogative intorno al concetto di famiglia felice e tradizionale che vive serenamente in una sorta di arcadia contemporanea. La famigerata famiglia del Mulino Bianco è sempre bianca, felice ed eterosessuale, anche in anni più recenti, nonostante la variazione della composizione etnica della società, nonostante l’ingresso dei movimenti Lgbtqi+ e delle associazioni per i diritti dei disabili.
Come già detto, l’esperienza omobitransessuale subisce alle volte un processo di eterosessualizzazione nelle pubblicità. Questo meccanismo si ha quando le pratiche culturali, politiche e sessuali proprie dell’esperienza Lgbtqi+ vengono oscurate e ne vengono messe in rilievo quegli aspetti che non tracimano dalla soglia dell’accettazione sociale. L’omosessualità viene rimossa nei suoi tratti distintivi e se ne avvicina l’immagine ai canoni che la società richiede, riadattando la visibilità Lgbtqi+ alla norma eterosessuale, creando distorsioni, pregiudizi, stereotipi. Tra le diverse rappresentazioni eterosessualizzate spiccano quelle della lipstick lesbian e della hot lesbian, ovvero di quelle donne lesbiche sessualmente accattivanti ed eccitanti che hanno sostituito la figura della lesbica butch, più maschile che femminile, estranea alle donne eterosessuale e non desiderabile agli occhi dell’uomo. Ma la moda del momento è la lesbo chic, che nelle pubblicità è sempre in compagnia di un’altra figura femminile bianca, bella, sexy, giovane e di successo.
Questo approccio deve soddisfare il piacere voyeristico del pubblico maschile, comunicando alle donne il modello femminile vincente da emulare per suscitare l’attenzione e l’interesse degli uomini. Con il risultato che la figura della donna lesbica è stata deomosessualizzata ed eterosessualizzata, creando un divario culturale e sociale tra due realtà. Riassumendo, possiamo affermare che i corpi delle hot lesbians si prestano a essere eroticizzati come oggetto del desiderio maschile e subiscono un processo di desessualizzazione tramite la rimozione del desiderio lesbico.
Per quello che riguarda l’omofobia intesa nel suo aspetto più generico e non clinico, nella rappresentazione mediatica dei gay, si possono distinguere quattro fasi dell’evoluzione dell’immagine televisiva dei gruppi sociali minoritari: non rappresentazione – negli anni che precedono la II Guerra Mondiale –, ridicolizzazione, regolamentazione e rispetto. La ridicolizzazione, che va dagli anni ’40 fino alla seconda metà degli anni ’70 e in certo qual modo si riproietta anche in alcune situazioni mediatiche a noi contemporanee, comprende le rappresentazioni stereotipate e peggiorative della comunità Lgbtqi+ – la lesbica dai lineamenti e dalle caratteristiche maschili, il gay effeminato e amante della moda, etc. La fase della regolamentazione, invece, propone un omosessuale possibile, ossia un omosessuale eterosessualizzato, velando l’esperienza Lgbtqi+. L’ultima fase, quella del rispetto, fa riferimento a spot pubblicitari gay friendly – le pubblicità del marchio svedese Ikea sono quelle che negli ultimi anni hanno registrato un elevatissimo tasso di avvicinamento alla normale raffigurazione della comunità gay, o la pubblicità 2014 della Findus, in cui è presente un coming out in famiglia.
Un esempio di spot che subisce un processo di ridicolizzazione è quello del marchio Axe Inca, The lift del 2011, che incentra tutta la scena all’interno di un ascensore. Un uomo giovane e attraente, probabilmente in ritardo per recarsi a lavoro, entra in ascensore e si cosparge di deodorante del prodotto reclamizzato. Subito dopo di lui entra un uomo meno carino e più insicuro e una donna, che si lancia con desiderio erotico sul timido passeggero. La donna scende, lasciando il ragazzo introverso frastornato e felice, ma prima che l’ascensore si chiuda, spunta una mano maschile con un guanto a mezzo dito borchiato. L’uomo che entra è visibilmente gay: berretto e gilet di pelle nera modello macho man, espressione troneggiante e divertita, sorrisetti allusivi. Al richiamo del profumo, l’uomo rude e grosso reagisce e si comporta come una donna, mentre l’espressione impaurita e stupita del protagonista sottolinea lo sgomento e l’avversione dinnanzi alle avances di una persona del suo stesso sesso.
Lo stereotipo dell’omosessualità come male sociale e pedofilia lo troviamo nello spot 2005 della Diesel – 5 a.m Mono Village –, dove un giovane e belloccio ranger deve eseguire una respirazione cardiaca a un anziano di brutto aspetto, che alla fine si allontana con aria soddisfatta, facendo l’occhialino agli spettatori. L’analogia omosessualità/brutto/male morale è piuttosto evidente, dove la perversione omoerotica si manifesta nel corpo, nella mostruosità fisica. Oltre a ciò, vi è anche l’allusione al continuum tra omosessualità e pedofilia: un anziano gay che ruba un bacio a un giovanissimo ranger eterosessuale.
Lo stereotipi della sfrenata vita sessuale del gay è ben rappresentata nella campagna pubblicitaria del 2007 di Dolce&Gabbana, con cinque uomini dai differenti atteggiamenti. Un ragazzo a terra, totalmente nudo, con l’espressione da Estasi di Santa Teresa di Bernini, cosce divaricate e petto glabro, viene osservato minuziosamente da altri due omini. Il primo piano è invece rappresentato da gambe, bacino e parte del tronco di uno dei giovani nell’atto di allacciarsi o slacciarsi la cerniera dei pantaloni, con una camicia sbottonata, e senza scarpe. L’immagine, nella sua integrità, rimanda al sesso di gruppo, alla trasgressione, alla promiscuità, lussuria, violenza forse, e non rappresenta in alcun modo l’esperienza Lgbtqi+, ma bensì suoi stereotipi.
L’ultimo aspetto della relazione che intercorre tra omosessualità maschile è quella della figura del metrosexual per indicare una categoria di nuovo maschio: consumatore, celibe, narcisista, salutista, appassionato di prodotti di cosmesi, abbigliamento e moda. È un’icona che esplora prodotti considerati femminili o gay, senza rompere i codici della virilità, incorporando di fatto aspetti stereotipi dell’omosessualità considerati desiderabili dalla cultura del consumo, promuovendo la normalizzazione del gay. Il maschio metrosessuale condivide così la stessa mercificazione di cui sono oggetto le donne. Due casi clou sono la campagna pubblicitaria di Dolce&Gabbana del 2010 – giovani seminudi e non su una spiaggia, con corpi scolpiti, curati e depilati ed elementi tipici di estetica gay, che allargano la definizione di virilità – e quella di Sisley – due diafani giovani a torso nudo che cercano refrigerio dal caldo estivo succhiando un lecca lecca, con lo sguardo verso l’obiettivo, chiaro suggerimento alla fellatio omoerotica.
Uno sguardo al mondo Disney e conclusioni
Abbiamo visto come lo stereotipo incida fortemente sulla società e sulla cultura, attraverso un processo dinamico non immediato, che varia da regione a regione e da periodo a periodo, creando semplificazioni e distorsioni della realtà nella quale si sviluppa la nostra vita associata. La generazione di etichette, categorizzazioni e gerarchizzazioni della collettività attraverso impressioni personali, che se interiorizzate e negativizzate portano al pregiudizio e successivamente allo stigma e alla discriminazione, con possibili risvolti violenti, crea divari economici e squilibri socioculturali di non facile risoluzione immediata, dove l’unico intervento possibile è quello della sensibilizzazione già da giovani, unita alla familiarizzazione e all’educazione, con la rottura del binarismo sesso/genere, del patriarcato e del razzismo. La stessa omertà, sempre più forte ai giorni nostri, è complice di azioni discriminatorie e stereotipizzate verso chicchessia, dando adito ai carnefici nel continuare nel loro atto demistificatore che a lungo andare diventa costume xenofobo. E forse, uno dai punti di risoluzione dal quale partire è proprio l’omertà, le cui catene devono essere assolutamente spezzate.
Abbiamo analizzato storie, frasi e vicende contemporanee che mettono alla luce stereotipi sulle donne e sulla comunità Lgbtqi+, partendo dalle voci del Congresso Mondiale delle Famiglie e dai luoghi comuni della società: il gay pedofilo e portatore di male, individuo emotivamente instabile e omosessuale per scelta o per moda; la donna fragile e non adatta a determinati ambiti della vita associata, relegata alla singola sfera domestica, che ingloba i doveri di moglie e madre devota, succube del patriarcato e del maschilismo; oppure la donna provocatrice, troppo sconsiderata nell’uscire se vestita un po’ più scollata del solito, perché se l’andrebbe a cercare, secondo il luogo comune. Come a giustificare un ipotetico stupro e conseguente violenza psicologica.
Il meccanismo di stereotipizzazione è vivo anche nell’immaginario pubblicitario, e non solo. Gli stessi lungometraggi Disney del passato danno una visione binaria, sessualizzata e maschilista della donna e dell’uomo. Da Cenerentola a Biancaneve, al Libro della giungla a La Bella e la Bestia, la donna rappresentata è sempre di bell’aspetto e il suo scopo principale è quello di diventare una brava moglie e una brava madre, che deve restare in cucina a svolgere le uniche mansioni che le sono adatte – «un bel giorno avrò un marito e una figlia anch’io avrò/ la manderò a prender l’acqua, e in cucina io sarò» – Il Libro della giungla, 1967. La sottomissione alla figura maschile e di potere della casa è descritta nei minimi dettagli in Mulan, 1998: «un uomo purché sia, di buona dinastia […] gli uomini vogliono donne obbedienti, ma che volino, educate, con un bel fisico». Ciò che conta è l’ubbidienza verso l’uomo, lo svolgimento della cura domestica e relazionale e la bellezza fisica del corpo femminile. Ursula, antagonista de La Sirenetta (1989), non si fa scrupoli nell’affermare che «agli uomini le chiacchiere non vanno, e si innamorano delle donne che sanno tacere». Ma il binarismo più elevato ed evidente all’interno dell’esperienza di animazione Disney lo troviamo nella contrapposizione Gaston/Belle nel lungometraggio La Bella e la Bestia del 1991. Gaston, alto, di bell’aspetto e dal fisico virile, ha gli atteggiamenti da bullo del paese, da eroe contro il quale nessuno può uscirne vincitore; Belle è gracile, ingenua a non accettare le avances dell’uomo, troppo impegnata a leggere, interessandosi al mondo che la circonda – un’attività che, secondo Gaston, mette in testa strane idee alle donne.
Ma i tempi cambiano, e la Disney ha saputo immagazzinare alla perfezione l’evoluzione della società e della cultura, eliminando i precedenti stereotipi e rappresentando le minoranze, dalla figura della ragazza emancipata e piena di coraggio in Oceania a Le Tont, primo personaggio gay ad apparire in un film Disney – nemmeno a farlo apposta, proprio il remake del 2017 de La Bella e la Bestia.
Nelle pubblicità, invece, la rappresentazione della donna e dell’uomo segue meri interessi economici e, soprattutto, ideologici, che hanno ricadute a lungo termine, dove i meccanismi di differenziazione e naturalizzazione sono il cuore pulsante di determinati spot: dalla donna lesbica eterosessualizzata, alla figura femminile eterosessuale che diventa serva del marito, all’animalizzazione delle donne nere, fino alla comparsa del gay metrosexual o dell’omosessuale dedito a un’intensa attività sessuale, magari pedofilo, la cui immagine viene accostata a quella di uomini vecchi e volontariamente resi orribili. La mercificazione del proprio corpo e della propria dignità diventano protagonisti dell’apparato mediatico pubblicitario, un sistema che miete vittime giovanissime attraverso i classici stereotipi binari, come ad esempio il rosa destinato esclusivamente alle bambine – raffigurate sempre in spazi chiusi, appassionate di cucine, accessori domestici e trucchi – e l’azzurro ai maschi – sempre all’aperto, dinamici, pronti ad affrontare qualsiasi pericolo. Il tutto, alla base della middle class, preferibilmente monoculturale, bianca ed eterosessuale, unica porzione della società osservabile dallo schermo. Tutto il resto è appositamente strumentalizzato e stereotipizzato. E tra le due entità, tra i due mondi, assistiamo a un divario sociale, di genere, economico e culturale che fa rabbrividire.
Bibliografia
- Bonura, Maria Luisa, (2016), Che genere di violenza. Conoscere e affrontare la violenza contro le donne, Trento, Erickson
- Corradi, Laura, (2017), Specchio delle sue brame. Analisi socio-politica delle pubblicità: genere, classe, razza, età ed eterosessismo, Roma, Ediesse
- Goffman, Erving, (1979), Gender Advertisements, New York, HarperCollins
- Mieli, Mario, (2017), Elementi di critica omosessuale, Milano, Feltrinelli
- Shugart, Helene, (2003), Reinventing Privilege: The New (Gay) Man in Contemporary Popular Media: volume 20, Critical Studies in Media Communication
Sitografia
- Associazione Te@, (24 febbraio 2015), Disney e stereotipi di genere: https://www.youtube.com/watch?v=GxDY_df-59M&t=32s
- Castellano, Simona, (29 giugno 2019), Pubblicità e cultura tra stereotipi e forme di razzismo: https://www.insidemarketing.it/pubblicita-e-cultura-stereotipi-e-razzismo/
- Deejay Tv, Redazione Web, (03 ottobre 2015), 11 pubblicità più una: quando la società era molto maschilista: https://www.deejay.it/news/11-pubblicita-piu-una-di-quando-la-societa-era-molto-molto-maschilista/451597/