Una finestra aperta su Utrecht

Una finestra aperta su Utrecht

di Mariaenrica Giannuzzi

Conversazione a partire dal libro “Gender, Globalization and Violence: Postcolonial Conflict Zones”, ed. by S. Ponzanesi, Routledge, 2014.

Table of Contents

Introduction: New Frames of Gendered Violence  Sandra Ponzanesi  Part I: Conflict Zones: Colonial Haunting and Contested Sovereignties  1. Neoliberal Discourses on Violence: Monstrosity and Rape in Borderland War  Jolle Demmers  2. Thin Ice: Postcoloniality and Sexuality in the Politics of Citizenship and Military Service  Vron Ware  3. American Humanitarian Citizenship: The “Soft” Power of Empire  Inderpal Grewal  4. Female Suicide Bombers and the Politics of Gendered Militancy  Sandra Ponzanesi  Part II: European Frictions: Memories, Migration and Citizenship  5. Uses and Abuses of Gender and Nationality: Torture and the French-Algerian War  Christine Quinan  6. Migrating Sovereignties and Mirror States: From Eritrea to L’Aquila  Marguerite Waller  7. Doing “Integration” in Europe: Postcolonial Frictions in the Making of Citizenship  Marc de Leeuw and Sonja van Wichelen  8. Coffin Exchange Paulo de Medeiros  Part III: Contact Zones: Transitional Justice, Reconciliation and Cosmopolitanism  9. “Invisible Wars”: Gendered Terrorism in the US Military and the Juárez Feminicidio. Alicia Arrizón  10. Political Transitions and the Arts: The Performance of (Post-)Colonial Leadership in Philip Miller’s Cantata REwind and in Wim Botha’s Portrait Busts. Rosemarie Buikema 11. Justice by Any Means Necessary: Vigilantism Among Indian Women  Aaronette White and Shagun Rastogi  12. On Love and Shame: Two Photographs of Female Protesters  Marta Zarzycka  13. Rethinking the “Arab Spring” Through the Postsecular: Gender Entanglements, Social Media and the Religion/Secular Divide  Eva Midden

 

(https://books.google.it/books?id=ut8ABAAAQBAJ&pg=PT88&dq=ponzanesi&hl=it&sa=X&redir_esc=y#v=onepage&q=ponzanesi&f=false)

 

“Questo volume sfida il presupposto che vede le donne assenti da guerre e conflitti a causa di una sorta di tradizionale, naturale associazione tra donne e pacifismo, un assunto basato sulle qualità femminilizzate di cura, nutrimento, lutto ed empatia.” (Ponzanesi, 2014).

Da qui inizia un viaggio multidirezionale a liberamente associativo che svela l’ambivalenza e la molteplicità dell’universo femminile che agisce nelle realtà postcoloniali. Il percorso si dispiega nella narrazione di figure, storie, contesti geopolitici e arti, svelando nuovi ruoli di genere all’intersezione con aree di conflitto, migrazione forzata, traffico umano e deportazione, diritti umani, cittadinanza, giustizia transizionale e cosmopolitismo. Ogni voce coinvolta nel progetto di questo volume non si propone di dipanare l’intero groviglio di questioni, ma di analizzare in termini storici le rappresentazioni discorsive e le pratiche socio-culturali di realtà conflittuali poste sotto la lente della ricerca sociale. Le voci coinvolte da Ponzanesi per questa finestra su temi e metodi che quotidianamente si esplorano al Centro di Gender Studies dell’Università di Utrecht provengono a loro volta da contesti accademici che variano dall’Università della California, passando per Yale, all’India e all’Australia, disegnando un quadro globale di conflitti e pratiche locali, ma anche una rete dei loro analisti. Per questo motivo, leggere “Gender, Globalization and Violence: Postcolonial Conflict Zones” è stata un’utile via per domandarsi: quali appartenenze e identità si costituiscono in una ricerca condotta su scala globale?

M.G. Questa domanda ha guidato la mia lettura del volume. Le figure analizzate, quelle che voi chiamate “ruoli di genere”, vengono descritti attraverso la lente della ricerca sociale in una rappresentazione che sembra il punto in cui strumenti universali o “globali” della ricerca accademica incontrano modi di esercitare il conflitto che stanno su un altro piano, quello di realtà locali. Allora la domanda che mi sorge spontanea è, si può articolare la ricerca sociale in modo tale che anche la ricercatrice possa rappresentarsi a partire dal proprio piano locale, senza immediatamente abbracciare la posizione del discorso scientifico (universale), di fronte a una materia (particolare) da studiare? Ecco, questo assunto della filosofia differenza, di partire da sé, secondo te può trovare anche spazio negli studi di genere? La maggiore criticità che io vedo in questo libro è proprio il fatto che l’avvincente panoramica di figure femminili in lotta trascende ancora una volta l’esposizione dei desideri e dell’identità di chi scrive e fa ricerca.

  1. D. Non credo che questo volume possa ricadere nello schema che hai criticato. Il motivo è che qui la ricerca sociale mette sempre al centro singole donne, non una materia inerte, e si chiede soprattutto quali rappresentazioni mediatiche sono state costruite proprio sull’agire politico di quella donna singolare, che non è per forza brava e buona. D’altra parte, chi indaga su queste figure singole, sa anche che il proprio linguaggio è un modo tra gli altri di rappresentare il conflitto e quindi lo include tra le rappresentazioni esaminate, senza credere che questo modo sia universale. Gli studi di genere sanno che il discorso scientifico non è un linguaggio universale. Anzi il loro compito è proprio far venire allo scoperto il conflitto d’interpretazioni che c’è dietro ogni sapere scientifico. Insomma diventa scientifica la rappresentazione dominante, noi invece teniamo in sé la molteplicità delle storie singolari, per questo le narrazioni rientrano in un modo post-coloniale di agire e rappresentare i conflitti.

M.G. Si certo, conosco le intenzioni, ma puoi farmi qualche esempio in cui davvero c’è un rapporto trasversale tra donne che fanno ricerca e donne che ne sono materia? Insomma quand’è che si mette in crisi questa divisione tra chi agisce un linguaggio e chi invece è pura materia di studio, come se non fosse capace di parlare per sé?

  1. D. Il fine complessivo del volume è un intrecciarsi di livelli, storie, figure e parallelismi che sonda realtà geografiche profondamente segnate dal conflitto, cercando di riconoscere il ruolo svolto da donne che sfidano, nel loro agire, le convenzionali immagini della vittima perenne, della generazione e protezione della vita. Sono rappresentazioni scomode. È così che durante il viaggio incontriamo le suicide bombers palestinesi e il basito polverone mediatico da esse innescato; la figura di Djamila Boupacha, la ventiduenne algerina – non nuova alle cultrici di Simone de Beauvoir – violentata e uccisa dai soldati francesi durante la guerra d’Algeria; le attiviste indiane della Gulabi Gang e della Mahila Aghadi; la mostruosità di Lynndie England, la ventunenne militare americana coinvolta nello scandalo delle fotografie degli abusi e dei maltrattamenti di Abu Ghraib; a livello discorsivo le tematiche spaziano poi dalla nozione di cittadinanza alla presenza femminile nel corpo militare, investigando la retorica istituzionale sullo spazio pubblico e privato e su come anche queste celino debolezze e disuguaglianze che però vengono contrastate e sfidate da soggettività femminili che ne manifestano e narrano le criticità. E ancora l’arte e il suo potenziale di riconciliazione, i media, le istituzioni e la relativa retorica che reitera ruoli privando le categorie intese come “minori”, dunque anche quella femminile, di possibilità di enunciazione e pieno riconoscimento. Si tratta di donne ribelli, spie, violente, donne che sfuggono all’ideale e reiterata immagine di sussidiarietà, cura, nutrimento, protezione, che non si fanno proteggere e difendere dal ben più consolidato e osannato eroe maschile, ma che agiscono in loro nome e con i loro corpi. Donne che hanno segnato profondamente la transizione verso il post-colonialismo attraverso la militanza in movimenti di liberazione o terroristici, o che sono state oggetti ma anche soggetti non solo di cambiamenti politici e sociali ma di interi impianti discorsivi sulla formazione degli stati nazionali e la perpetuazione di strutture gerarchiche.

M.G. Tu hai collaborato come assistente nella curatela del volume. Puoi raccontarci la sua storia?

F.G. La storia del volume inizia durante la 7° European Feminist Research Conference tenuta a Utrecht nel giugno 2009, con la sessione “Connessioni globali: Migrazione, Consumismo e Politica” coordinata da Sandra Ponzanesi; per quanto molti dei contributi della raccolta portino la firma di accademici e ricercatori presenti alla Conferenza, essa ha successivamente preso vita propria, come sottolinea la stessa Ponzanesi, “sviluppando nuove relazioni intorno alle questioni di genere e relative ad aree di conflitto postcoloniale e prendendo nuove direzioni grazie agli emozionanti interventi dei nuovi collaboratori successivamente saliti a bordo”. Risultato è un insieme interdisciplinare di voci che intervengono sulla complessa questione del genere e dei ruoli nella realtà globale contemporanea e postcoloniale, esplorando le modalità con cui soggettività incarnate, cioè marcate per genere e razza, hanno svolto ruoli cruciali nella transizione verso il post-colonialismo e nei conflitti globali attuali.

  1. G. Secondo te queste figure geograficamente distanti e non allineate con l’immaginario della cura e della conservazione della vita, possono essere modelli anche di un agire politico per noi, che, almeno apparentemente, viviamo in aree geografiche meno conflittuali?
  2. D. Resta da chiedersi se nelle democrazie europee ci troviamo effettivamente di fronte a uno sviluppo (che verrà, forse, seguito dal riconoscimento) del ruolo e della visibilità femminile, in un senso non riproduttivo. Oppure se le realtà geograficamente lontane, prese in esame, non consistano in fin dei conti in una reiterazione di stereotipi e rappresentazioni predefinite, in continuità con la gestione patriarcale e neoliberista dell’essere umano e dello spazio geopolitico. Intanto questo volume offre la possibilità di esplorare un nuovo quadro storico, sociale e politico in cui il genere risulta un’arma, strumento di conflitto o divisione, ridefinendo un contesto che mette in luce le esperienze di partecipazione femminile a guerre e conflitti e il gap tra la storia delle istituzioni convenzionalmente narrata ed effettivi agenti, azioni e responsabilità. Questa pluralità di voci si traduce quindi in una pluralità di contenuti che ben rendono la molteplicità della soggettività che il femminismo in sé difende. Per cui, credo che l’analisi dei ruoli di genere non conformi all’immaginario della cura, attraverso l’analisi transtorica e transdisciplinare, se non un modello immediato di agibilità dei conflitti che noi stesse incontriamo sia almeno il punto di partenza per un’efficace conoscenza della relazione stabilita tra femminile e contemporaneità postcoloniale.