Questo articolo è apparso sul numero 374 di aut aut di Giugno 2017, intitolato Prove di “spiritualità politica”.
A quale verità si accede dalla nascita
La normalità di milioni di uomini eterosessuali è intrisa di sessismi di ogni tipo, di forme di violenza esercitate sia verso altri generi e orientamenti sessuali, sia verso i suoi simili, uomini eterosessuali, che non sembrano adeguati a quella normalità. L’ovvietà di questa constatazione, che tanti femminismi denunciano e dimostrano da decenni, è silenziosamente accettata dai più, altrettanto pacificamente della totale noncuranza con la quale anche chi si dedica a un pensiero critico più spesso di una comune persona le riserva. Un qualsiasi uomo (bianco, eterosessuale, occidentale) normale manca ancora e sempre l’occasione di mettere in crisi questa parola così abusata, quotidiana eppure pericolosa: normale.
Quella normalità che concede privilegi e vantaggi sociali chiede anche molto: adeguarsi a modelli di comportamento e di relazione non scelti, insegnati e vissuti come se non ci fossero alternative, come se fossero la normalità e tutto il resto aberrazioni, violenze, mostruosità, distorsioni, compromessi. Questo è l’ambiente nel quale uomini nascono e crescono e nel quale si formano una idea di verità. Quella verità spicciola e comune non pensata esclusivamente in termini di conoscenza, ma in rapporto al cammino, al viaggio che un uomo deve compiere per potersi costituire come soggetto – “l’esperienza” – e che si accumula in ciascuno definendo un percorso unico e singolare. Per quanto la normalità sia un concetto estremamente elastico e facilmente adattabile a tante realtà diverse, uomini che vivono in classi di reddito diverse, in ambienti urbani diversi, che sono abituati o meno a viaggiare in paesi diversi e a parlare lingue diverse si corrispondono grazie a un fondo comune, pochissimo pensato e criticato, ma che intende la vita come “prova”. Una serie di peripezie attraverso le quali un individuo si forma “artigianalmente”, costruendo una propria autonomia etica – più o meno consapevolmente – e il cui ammasso genererà un soggetto il quale sarà prima o poi capace di esprimere, su quelle esperienze, una sua verità.
Sappiamo da Foucault che sarebbe più che auspicabile costruirsi, trasformarsi, lavorare incessantemente su se stessi in modo che quella verità non sia intesa come una cosa da possedere, un traguardo da superare una volta per tutte, ma come una realizzazione della propria vita. Il senso dell’antica “cura di sé” è svanito nel momento in cui complessi apparati culturali e le annesse pratiche politiche hanno stabilito che fosse solo la conoscenza il più possibile oggettiva – distaccata, indifferente, assoluta, non-vissuta – a poter stabilire, con i casuali mattoni che ciascuno incontra, una vera identità. Ma il senso possibile di quella presunta oggettività si è palesato come normalmente distorto verso un solo genere – ed è solo la prima delle tante distorsioni. Il proprio corpo, l’aspetto, l’immagine, la maggior parte del linguaggio disponibile continuano a portare con sé una carica patriarcale, oppressiva e discriminante, che è quasi impossibile eludere se non tramite tortuosi espedienti e pratiche difficoltose. Normalmente la verità di cui si fa esperienza in quanto uomini eterosessuali è densa di quelle situazioni linguistiche e comportamentali che hanno un valore identificativo oppressivo verso altri e altre e che andrebbero respinte – ma non sempre è possibile, né si possono eludere in tempo o senza sacrificio. Il proverbio e il luogo comune sessista, la battuta del collega o dell’amico, l’insulto al volante o nella chiacchiera riguardo un fatto di cronaca, il colloquio sul posto di lavoro, l’ossessionante maschilismo dei media, sono situazioni e presenze coinvolgenti (quando non veri e propri attori sociali) che identificano nelle loro dinamiche tutti gli uomini eterosessuali, che certo nell’aspetto o nel linguaggio non si presentano – almeno non di primo acchito – come distinguibili tra maschilisti e sessisti convinti, inconsapevoli veicoli di patriarcato o schietti antisessisti. Se pure una minima dotazione di dispositivi linguistici e comportamentali esiste per chi non vuole crescere in questo modo, l’uomo che vuole costruirsi una verità fuori dal sessismo è ancora impossibile da inquadrare in un percorso politico ed esistenziale definito, anche se problematico.
È sempre Foucault a raccontare della lotta per una soggettività che passa attraverso la resistenza a due forme di assoggettamento; la prima esiste come individuazione in base a richieste espresse da un potere – e che il potere abbia da svariati secoli una connotazione patriarcale lo sappiamo; la seconda prescrive che ogni individuo sia fissato a una identità nota e definibile in assoluto – che sia normalmente eterosessuale oppure non sarà accettabile come identità, e anche questo lo sappiamo da molto.
Dovremmo evitare, pertanto, di dar vita a una storia continua dello gnothi seauton, una storia che avrebbe inoltre come inevitabile postulato, implicito o esplicito, una teoria generale e universale del soggetto, mentre credo che dovremmo, invece, cominciare con un’analitica delle forme della riflessività che costituiscono il soggetto come tale. Insieme a tale analitica delle forme della riflessività, dovremo avviare anche una storia delle pratiche che servono loro da supporto, per poter attribuire tutto il suo significato – il suo significato variabile, storico, e mai universale – al vecchio principio tradizionale del "conosci te stesso".1
In questa "analitica" è ormai il momento di inserire i femminismi, smettendo di credere che parlino solo “per”, e “a”, mezza umanità. Non è più possibile eludere le pratiche femministe che da tempo provano a interrompere quella oppressiva "teoria generale e universale del soggetto" maschile eterosessuale. Possiamo continuare a criticare il modello cartesiano di conoscenza di sé a lungo; ma senza accettare che attualmente si configurano accessi a verità diverse a seconda del genere nel quale si nasce, e che questi accessi sono decisi da un potere che ne regola gerarchicamente l’accesso a un numero limitato di individui, quella critica non porterà a nulla, perché non riesce a scalfire la normalità di una oppressione generalizzata della conoscenza di sé come pratica; perché non produce una storia
che non sarebbe una storia delle dottrine filosofiche, ma una storia delle forme, dei modi e degli stili di vita, una storia della vita filosofica come problema filosofico, ma anche come maniera di essere, e come forma al tempo stesso etica ed eroica.2
Micropoteri e paradossi
La peculiarità di chi da uomo cerca una verità diversa da quella del patriarcato vigente, e che cerca di essere quella verità, è attualmente vivere il suo paradosso, quello dell’oppressore-oppresso. Raggiungere una condizione di ripensamento e di cambiamento riguardo al propria condotta di genere, che nel caso di un uomo eterosessuale è di per sé inevitabilmente patriarcale per molti aspetti, fa vivere immediatamente una situazione paradossale perché il corpo di un uomo continua a significare quella oppressione verso gli altri generi che c’era prima della sua nascita, quasi da sempre. La ricerca e la pratica di una possibile parresia maschile deve porsi pubblicamente con ironia, o correrà il rischio di ripetere i linguaggi e le performance oppressive che da sempre caratterizzano il maschile. Se il discorso e la pratica patriarcale sono il normale, il serio, l’ovvio e il consueto modo del potere costituito, la partica di una critica svela la consustanziale ambiguità di quella (supposta) normalità patriarcale, e ne mina la dispotica e tronfia sicurezza in ogni aspetto della vita sociale e privata. Svelare le ambiguità del potere maschile eterosessuale, privarne di certezze la gerarchia sociale, smascherare a quali condizioni sussiste il patriarcato è un compito politico evidentemente di natura ironica. L’uso dell’ironia nel discorso e nella pratica della ricerca di una possibile verità svela il lato oscuro, il meccanismo del consenso patriarcale nascosto nella (supposta) naturale serietà maschile, che ha reso quasi tutti gli uomini ma soprattutto i difensori più accaniti dello stato di cose sostanzialmente delle persone incapaci di ridere di se stessi, di vedere il lato opposto delle cose soprattutto per ciò che riguarda loro stessi – e sia per quanto riguarda le questioni di genere. Senza ironia, "l’impazienza della libertà" rischia di tradursi in un nuovo potere prescrittivo.
Mi sembra vi sia stato un certo momento – e quando dico "momento" non intendo assolutamente situare tutto ciò in una data definita, oppure localizzarlo, o individualizzarlo attorno a una e una sola persona – in cui il legame tra l’accesso alla verità, divenuto sviluppo autonomo della conoscenza, e l’esigenza di una trasformazione del soggetto, e del suo essere, da parte del soggetto stesso, è stato, credo definitivamente, spezzato.3
È inutile che vi dica che, quando affermo che mi sembra che tale legame sia stato definitivamente interrotto, non ci credo neanche un po’. Tutto l’interesse della cosa deriva per l’appunto dal fatto che i legami non sono stati bruscamente recisi come in seguito a un taglio improvviso.4
Colui che non ha ancora reciso del tutto quel legame, un luogo dove è possibile trovare ancora quel legame non tagliato – potrebbero essere ricerche filosofiche sulle tracce di una spiritualità foucaultiana adatta a un uomo etero che non accetti il potere che funziona sul suo corpo, identificandolo.
Sarebbe facile trovare degli esempi tratti dalla vita di tutti i giorni nei quali il ridicolo, il goffo, l’impaccio, sono strumenti di conoscenza a disposizione di quegli uomini che vogliono mettere in discussione la propria fisicità o la propria abilità motoria – ossia il modo di stare nel mondo e presentarsi, quindi il modo di impegnarsi in una relazione. Così, quando il corpo e la parola maschili si rivelano in spazi e momenti diversi da quelli imposti o supposti naturali, come sempre l’ironia sarà il segno di una opposizione, forse di una rivolta, la traccia di una consapevolezza diversa di fronte ai micropoteri disciplinari quotidiani. La possibilità di una verità diversa si può configurare come uno spostamento simbolico attuato con il proprio corpo, una condotta che destabilizza il pregiudizio del senso comune, che costringa l’interlocutore, animale o istituzionale che sia, a ripensare le sue statiche categorie di mascolinità, virilità, “normalità” dell’uomo eterosessuale. Inevitabilmente si perseguiranno pratiche che attuano reazioni orizzontali, non gerarchiche, che legano i corpi in maniera politica criticamente. La lezione la sappiamo:
La forma giuridica generale che garantiva un sistema di diritti, egualitari in linea di principio, era sorretta da questi minuscoli, quotidiani, fisici meccanismi, da tutti questi sistemi di micro-potere – essenzialmente non-egualitari ed asimmetrici – che noi chiamiamo discipline.5
L’uomo eterosessuale, imprigionato dalla nascita nelle costrizioni della mascolinità virile, vincente, oppressiva, alpha, obbligato a parlare il linguaggio, a praticare le abitudini e a indossare la divisa del macho per essere socialmente accettato – anche e soprattutto queste sono le sue “discipline” che incontra da quando un fiocco celeste è stato appeso alla porta della sua casa natale – deve attuare una resistenza per la quale non c’è ancora né una storia né un senso comune cui richiamarsi. Ma forse, esempi sì, perché se è una pratica di verità che cerchiamo, allora l’esempio, l’applicazione, può essere più significativo della formulazione, della teoria, della conoscenza.
Judith Butler racconta così il novembre del 2015, a Parigi.
Appare chiaro, dai dibattiti televisivi, che lo “stato di emergenza”, anche se temporaneo, crea in realtà un precedente per un’intensificazione dello “stato di polizia”. Si parla di militarizzazione (o meglio, del modo in cui “portarne a compimento” il processo), di libertà e di guerra all’“Islam”, quest’ultimo inteso come un’entità amorfa. Hollande, nel dichiarare “guerra” ha tentato di darsi un tono virile, ma a colpire, in realtà, era l’aspetto imitativo della sua performance – al punto da rendere difficile seguirlo seriamente. Proprio questo buffone, in ogni caso, assumerà ora il ruolo di capo dell’esercito.6
Il passo che aiuta un cammino verso la verità, che unisce filosofia e politica in una pratica, è "ha tentato di darsi un tono virile". Inchiodare l’ipocrisia del potere politico alla sua virilità costruita è un passo necessario verso una nuova verità per sé come uomini che non vogliono accettare questo primo dispositivo di potere: la virilità, la mascolinità, la patriarcale impronta su linguaggi e atteggiamenti. Quello sguardo che mi indica tutto ciò viene in questo caso da una filosofa che non posso in nessun modo incastrare in un potere patriarcale, e il cui sguardo devo usare per osservare ciò che pure ho sotto gli occhi da sempre: se pretendo di costruirmi una soggettività che abbia il coraggio della verità, devo prima sottoporre a critica – archeologica, linguistica, filosofica, pratica – quello che la mia soggettività e “la virilità di Hollande” abbiamo in comune in quanto uomini eterosessuali bianchi occidentali che condividono una porzione non indifferente di terreno politico, di cultura illuminista, di pratica maschile. E tutto questo deve accadere “dal basso verso l’alto”, con l’analogia esemplare di una soggettività che illumini la possibilità della mia soggettività, per non replicare un rapporto di potere gerarchico. Quello che i femminismi, dal “partire da sé” in poi, vanno esponendo pur nelle loro notevoli differenze.
E di ironia, infatti, parla anche Butler.
Il fatto di introdurre la discussione della complessità o dell’ambivalenza è considerato qualcosa di depoliticizzato. Quindi, che cosa significa ciò? Significa che, per contare politicamente, dobbiamo sottoscrivere visioni del mondo ridotte e semplicistiche e significa anche che allo stesso tempo ci priviamo del potere di capire e afferrare il mondo in cui viviamo. Per me uno dei punti chiave della critica è che questa è un’operazione che ci consente di vedere perché le questioni politiche sono definite nei termini dell’essere a favore o contro qualcosa. E quindi penso che si debba persistere nel portare avanti un certo tipo di complessità e penso anche che dovremmo essere capaci di usare l’ironia nel discorso politico e che determinate circostanze storiche proprio lo richiedano.7
La necessità dell’ironia, per un uomo che costruisce una identità fuori dai (micro-)poteri patriarcali sta nel dover costruire tutto questo percorso dentro e mentre il patriarcato funziona ancora; non solo come fornitore di linguaggio, immagine sociale, abitudini e atteggiamenti, ma anche e soprattutto come educatore che pure ha cresciuto gli uomini che con quegli strumenti successivamente vogliono opporsi alle sue direttive. Questa ambiguità – "un certo tipo di complessità" – è necessaria prima per svelare le strutture di potere e i meccanismi di consenso che costringono più o meno consapevolmente milioni di uomini ad aderire al modello patriarcale, poi per poterne parlare, indicarlo liberamente come modello negativo, schernirsi dei suoi valori e sovvertirne le strutture sociali, psicologiche e del pensiero.
Nella apparente assenza di riferimenti politici e culturali adatti esiste comunque un enorme patrimonio al quale attingere: quello dei femminismi – che sono riferimenti da decenni, per chi li considera come tali. Non si tratta, ovviamente, di far passare come adatti alla lotta per una verità – per una foucaultiana spiritualità maschile – il lavoro di tante filosofe e attiviste tout court, ma di cominciare un lavoro di traduzione, adattamento, rielaborazione, discussione, di temi e pratiche efficaci nei femminismi e che facendo perno sul "nemico comune" patriarcale possano dare all’uomo eterosessuale qualcosa per iniziare il suo percorso, la sua diserzione.
C’è una strada possibile?
Gli uomini eterosessuali continuano a nascere con una divisa cucita addosso. Si cerca di renderli tutti uguali nella gerarchia, tutti uniti contro qualunque cosa sia diversa da loro o non voglia rientrare in quelle divise; tutti con un rigido codice di comportamento e d’onore, con gli stessi valori e ideali che poi declinano a seconda del loro ambiente, del loro linguaggio, delle loro abitudini. Soprattutto negli ambienti e nei momenti educativi (la famiglia nella quale si cresce, la scuola, gli studi universitari, la formazione al lavoro e sul luogo di lavoro) non esistono ancora sufficienti strumenti e sufficienti persone che possano determinare un cambiamento verso una società meno sessista e più libera soprattutto per gli uomini eterosessuali che ancora non avvertono questi legami fatti al loro corpo, alla loro mente e alle loro emozioni come un problema sociale.
Anche perché tutto questa complessa forma dell’assoggetamento maschile, complicata da un meccanismo di privilegi che ne determina l’ambiguità caratteristica, potrebbe essere una condizione di possibilità, la condizione di possibilità per molti uomini eterosessuali. Quando Butler esplora ne La vita psichica del potere mette le mani proprio in questa consustanziale ambiguità.
L’interrogativo che pongo è relativo a come sia possibile per il soggetto porsi in una relazione oppositiva con il potere che è, com’è noto, implicata nello stesso potere cui si oppone. […] Ciò che vorrei suggerire, dunque, è che il soggetto può essere concepito come se il suo agire derivasse proprio dal potere a cui si oppone, benché tale formulazione possa sembrare scomoda e disturbante, soprattutto agli occhi di quanti credono nella possibilità di sradicare questa complicità e questa ambiguità una volta per tutte.8
La peculiarità dell’uomo che cerca una via verso una verità non patriarcale è vivere il suo paradosso, quello dell’oppressore-oppresso. Raggiungere una condizione di ripensamento e di cambiamento riguardo al propria condotta di genere, che nel caso di un uomo eterosessuale è di per sé inevitabilmente patriarcale per molti aspetti, fa vivere immediatamente una situazione paradossale: criticare i vantaggi sociali che il patriarcato prepara per un uomo eterosessuale professandosi anche vittima contemporaneamente di quello stesso patriarcato. Una classica situazione ironica nei confronti del potere, che però, come suggerisce Butler, non è affatto paralizzante: questa ambiguità è necessaria prima per svelare le strutture di potere e i meccanismi di consenso che costringono più o meno consapevolmente milioni di uomini ad aderire al modello patriarcale, poi per poterne parlare, indicarlo liberamente come non verità (foucaultianamente), schernirsi dei suoi valori e sovvertirne le strutture sociali e psicologiche. Il nostro sistema sociale è quello che è, anche se la visibilità delle eccezioni sembra più convincente della realtà dei dati; non si tratta affatto di "fare quello che fanno le donne" o peggio "fare come dicono le donne" – ammesso che questo tipo di affermazioni o di critiche vogliano dire qualcosa di sensato – ma appunto di ispirarsi a esperienze politiche consolidate e a contributi teorici di ampio respiro per costruire una verità possibile, una spiritualità, per l’uomo che ancora non c’è.
La condizione paradossale è forte: si tratta di battersi per una autodeterminazione maschile non sessista, per una rivendicazione anche maschile del nesso tra ambito personale e ambito politico – due vecchie battaglie tipicamente femministe. Le quali sempre di più, ogni giorno, possono diventare strumenti personali, politici, sociali e teorici, con i giusti distinguo, anche per quegli uomini che non vogliono più essere inclusi in quella normalità, violenta anche contro di loro, che si chiama patriarcato.
Note
1 Michel Foucault, L’ermeneutica del soggetto (2001), trad. di M. Bertani, Feltrinelli, MIlano 2003, p. 413.
2 Michel Foucault, Il coraggio della verità: il governo di sé e degli altri II. Corso al Collège de France (1984) (2016), a cura di M. Galzigna, Feltrinelli, Milano 2011, p.206.
3 M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982) (2001), trad. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2003, p.22.
4 Ivi, p.22-23.
5 Michel Foucault, Sorvegliare e punire: la nascita della prigione (1975), trad. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, p.222.
6 Judith Butler, Il lutto diventa legge, trad. di F.Zappino e M.Liberatore, ed. or. in "Revista Cult", 13 novembre 2015, http://effimera.org/il-lutto-diventa-legge-di-judith-butler/
7 Genere, identità, violenza. Una conversazione con Judith Butler, a cura di S. Adamo, "Le parole e le cose" 3 agosto 2015, http://www.leparoleelecose.it/?p=10681
8 Judith Butler, La vita psichica del potere (1997), trad. di F. Zappino, Mimesis, Milano 2013, Introduzione, §3.