Il seguente articolo è stato pubblicato su Concordia discors vs Discordia concors. International Journal for Resarches into Comparative Literature, Contrative Linguistics, Cross-Cultural and Translation Strategies, n. 6 del 2014.
Per consultare l’intero numero, rimandiamo al sito della rivista.
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di Valeria Mercandino
Questo articolo ha lo scopo di indagare il conflitto che ha avuto luogo all’interno del femminismo italiano a causa dell’emersione della soggettività lesbica. L’entrata in campo di donne lesbiche, che hanno portato nuove forme di espressione e una diversa consapevolezza, ha sollevato numerose questioni fino al consumarsi di una frattura, che ha provocato la divisione tra femministe e lesbiche in movimenti politici distinti.
La struttura dell’articolo prevede una premessa che tenta di dare conto, per sommi capi, degli sviluppi che ha avuto il movimento femminista italiano, osservandoli alla luce di questo conflitto. Tale premessa è stata improntata a partire da “considerazioni attuali” che meglio verranno esplicitate nelle conclusioni, scritte nel tentativo di chiarire le intenzioni del presente testo. Il corpo centrale dell’articolo, invece, si focalizza sulla ricostruzione del dibattito in merito alla presenza delle lesbiche nel movimento femminista che è stato animato dalla rivista femminista DWF. Questa, dunque, è un’indagine che non vuole essere esauriente, ma vuole osservare, dall’interno e nel dettaglio, i modi, lo spazio e il linguaggio in cui si è dato tale conflitto. Questa osservazione da vicino ha lo scopo di fare chiarezza su alcuni elementi teorici che hanno segnato profondamente gli sviluppi di tale conflitto, nella convinzione che in questo modo esso possa essere riportato con maggiore incisività alla memoria del contemporaneo.
In questo senso, il presente articolo non è che uno spunto iniziale per un lavoro molto più ampio che riteniamo sia necessario intraprendere per almeno due ragioni. La prima è conoscere in modo diretto le dinamiche e le intenzioni che hanno animato il passato per riportarle a una visione integrata da diversi punti di vista. La seconda è ricercare in questo passato spunti per nuove strategie e pratiche politiche capaci di portare all’attenzione pubblica delle voci sonore e autorevoli, molteplici e conflittuali, di donne, di femministe, di lesbiche sui temi della sessualità, della politica e dei diritti civili.
1. Premessa: una radicale differenza tra donne
Sin dal suo esordio negli anni Settanta, il femminismo italiano ha lavorato a cavallo tra la trasformazione di ogni donna in una soggettività singolare e autonoma e la formazione di un movimento collettivo capace di accogliere tutte. Questa duplicità, lungi dall’essere una contraddizione, risulta essere piuttosto una tensione tra due poli necessari uno all’altro, e per questo implicati in un continuo sforzo di bilanciamento, alternato tra reciprocità e conflittualità. È stato il femminismo come movimento ampio a creare le condizioni per la nominazione di sé che ogni donna ha intrapreso: esso si è rivelato né un contenitore vuoto, né una cornice dentro cui applicare una norma stabile, ma un soggetto collettivo cui ognuna partecipava. La storica femminista Emma Baeri, all’interno di una raccolta di saggi del 2008 intitolata Il movimento delle lesbiche in Italia1, afferma che “nel consentire l’emergere di una soggettività femminile finalmente svincolata da ogni forma di mancanza, di tutela, di oggettivazione, il femminismo ci ha aperto gli occhi su noi stesse, quindi sulle altre. Finalmente ci siamo viste intere, non più complementari, belle, fuori dagli stereotipi, soggetti di desiderio” (47). Dall’altra parte, essendo lo spazio, fisico e mentale, per avviare i singolari processi di soggettivazione, il femminismo si è nutrito di quelle molteplici differenze che ogni singola donna porta con sé e che ha portato nel processo costituente il movimento. Ogni esperienza, così come ogni relazione concreta, ha contribuito alla creazione e al mantenimento di questo spazio collettivo. Tutte le differenze – fisiche, geografiche, caratteriali, di estrazione sociale, di istruzione, di reddito, nell’immaginario e nel desiderio – hanno concorso a mantenere plurale e dinamico, anche nel conflitto, un “noi donne” non appiattito su un concetto di Donna come soggetto singolare univoco o come significante astratto.
Tali differenze non hanno avuto, però, solo un risvolto virtuoso: spesso si sono dimostrate, nei fatti, fonti di problemi e di conflitti insanabili. I diversi linguaggi non si sono sempre incontrati in maniera armoniosa: talvolta sono mancate le traduzioni per farsi comprendere, talvolta sono mancate le mediazioni necessarie per far incontrare esperienze differenti. La perdita della propria singolarità è stata vissuta come una minaccia angosciante da cui difendersi strenuamente. La spinta, da più parti, è stata quella di ritrarre il proprio specifico nell’intimità o nello spazio, politico ma ridotto, del proprio gruppo di appartenenza. La conseguenza principale è stata quella di svuotare e immiserire il tessuto collettivo, l’unico spazio che costituiva una rete, tanto di sostegno quanto di rilancio, della differenza propria e delle altre. La risposta generalizzata è stata una stretta intorno al senso di appartenenza, che ha prodotto l’omologazione del linguaggio e delle istanze dello spazio collettivo. Ad essa hanno fatto eco il silenziamento di quel discorso sul personale, percepito sempre più come possibile causa di rottura, e quindi anche a costante rischio di essere messo in discussione.
La differenza fondamentale che ha tagliato il femminismo italiano è stata quella lesbica. Sin dai primi passi del movimento, le donne lesbiche hanno nutrito con una presenza massiccia e propositiva la costruzione delle pratiche politiche e il senso comunitario, sia dei piccoli gruppi sia del movimento ampio. Emma Baeri sottolinea che sia l’entrata di un’esperienza e un sentire lesbici nel femminismo, che la crescita di gruppi dichiaratamente lesbofemministi, “hanno reso manifesta sia la violenza della colonizzazione patriarcale del corpo e della sessualità di tutte le donne attraverso l’eterosessualità obbligatoria, sia le diverse risposte politiche a questa evidenza da parte di un movimento complesso e maturo” (48). Queste donne hanno rappresentato una presenza incarnata e un discorso pubblico che incitavano alla coerenza, ad approfondire la correlazione tra la critica al patriarcato e i rapporti con gli uomini in carne e ossa. Nel tempo, questo discorso è divenuto sempre più visibile e il suo impatto sempre più incisivo e, nella metà degli anni Settanta, ha visto i primi tentativi di ridurne la portata. Sempre Baeri mostra come il rifiuto si sia espresso in prima istanza a livello del linguaggio, concentrandosi sul rifiuto di termini che fanno riferimento esplicito e diretto al lesbismo. A questo proposito, la storica cita un documento2 prodotto in un convegno femminista che ha avuto luogo nel 1975. In questo documento viene detto che la parola “lesbismo” è stata “coniata come un insulto ed una etichetta da una società maschile per provocare delle donne che sono diverse e, quindi, allontanate, emarginate. […] Quando noi parliamo di rapporti tra donne è invece un’altra cosa che intendiamo. Non dobbiamo proprio noi essere conniventi sull’uso strumentale che la società fa di certe parole per etichettarci e dividerci” (50). La negazione dell’uso di questi termini, in quanto considerati troppo connotati, ha dato vita a una moltiplicazione dei modi di dare conto della centralità della relazione con l’altra. “Relazione tra donne”, “omosessualità ideologica” e “separatismo politico”, sono esempi di locuzioni che mettono l’accento sui rapporti esclusivi tra donne femministe; “erotismo diffuso” e “pulviscolo erotico” sono locuzioni coniate per dare voce al piacere pervasivo che ha connotato tali relazioni. La scelta di questo vocabolario è stata certamente importante per denotare positivamente le relazioni tra donne, che nel patriarcato sono sempre state segnate dalla presenza dell’uomo e dalla competizione. La sua legittimità viene messa in dubbio dallo scotto pagato dalle lesbiche, indotte al silenzio: infatti, pur avendo portato alla condivisione i propri corpi e le proprie esperienze, esse hanno visto rimossa la propria differenza perché difficile da sostenere per le altre.
Questa cancellazione, però, non ha frenato una pratica di nominazione ormai avviata, che ha preso sempre più le caratteristiche di un’orgogliosa rivendicazione di esistenza. Una pratica, questa, che mette l’accento sulla profonda divaricazione che stava avvenendo tra diversi modi di interpretare il femminismo. Emma Baeri afferma che, nello scorrere degli anni Settanta, “avviene uno spostamento radicale, che segnala nell’uso delle parole la differenza tra il voler mettere in gioco il desiderio per una donna assumendo l’assioma femminista “il personale è politico” e la riservatezza di una relazione di preferenza nei rapporti affettivi e sociali, che tuttavia non attinge alla profondità di un desiderio trasgressivo”. In questo modo, la pensatrice vuole mettere a tema “la differenza tra chi vuole rappresentare in modo esplicito, politico, il radicale passo oltre l’ordine simbolico patriarcale che l’amore per l’altra fa muovere, e chi ritiene che la relazione d’amore con l’altra sia una faccenda privata. Molto più di quanto non immaginassimo, o forse ancora oggi non immaginiamo, questa questione di nomi non ha riguardato solo la visibilità del lesbismo, ma la visibilità stessa della sessualità femminile come radice di una pratica politica inedita” (51).
La difformità tra le posizioni delle lesbiche, che si sono fatte interpellare radicalmente dalla necessità di ricomporre la sfera del personale e quella pubblica, e delle altre donne, eterosessuali e lesbiche, che hanno scelto di relegare la sessualità e le relazioni personali nel riserbo della sfera intima, ha provocato una distanza sempre più incolmabile. Le prime hanno preso un’altra strada: tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, le lesbiche si sono allontanate sempre più massicciamente dal movimento femminista, andando verso un’elaborazione autonoma della propria specificità e dando vita a un lesbofemminismo sempre più distinto e riconoscibile. Le seconde hanno proseguito sulla via del femminismo di tutte le donne. A partire dagli anni Ottanta, la necessità di saldare personale e politico per uscire da un’alternativa che riduce le donne a una condizione di costante incompletezza, da condizione fondamentale del percorso di soggettivazione fatto in relazione, perde la sua centralità.
2. Dibattito: posizionamenti dentro al conflitto
Il dibattito preso in considerazione per ragionare intorno alle questioni fin qui delineate è quello sorto all’interno della rivista DWF tra il 1986 e il 1991. Grazie ad alcuni articoli di Simonetta Spinelli, di Ida Dominijanni e di Teresa de Lauretis, entreremo nel merito della questione.
DWF – donnawomanfemme è una storica rivista femminista tuttora attiva: nata a Roma nel 1976, negli anni ha avuto la vocazione a pensare il contemporaneo dal punto di vista femminista. Questo intento si è espresso dando spazio all’attualità e dando voce alle diverse posizioni del panorama nostrano, senza trascurare gli altri femminismi del mondo. Tenendo fede a questo intento, nel decennio Ottanta, la rivista ha dedicato numerosi numeri alla questione del collettivo e a quelle pratiche politiche che ne potessero rinnovare l’efficacia. L’editoriale3 del primo numero di DWF del 1986 esplicita le necessità del nuovo progetto: “avvertiamo in molte il bisogno di riprendere il discorso su noi stesse come soggetto collettivo, di tornare a investimenti più politici […] per interrompere la consuetudine vischiosa che consiste ormai soltanto nel “parlarsi in confidenza”, vogliamo rintracciare un metodo di indagine che renda manifesti gli elementi utili all’intelligenza delle nostre esperienze, intimità, pensieri […]. Vogliamo che la rivista sia luogo di risonanza per le domande su di sé, sulle altre, sui rapporti tra sé e il mondo: latenti o urgenti esse non attingono ad uno scambio diffuso e non divengono discorso” (5). Sempre nel 1986, il numero 4 della rivista ha l’evocativo titolo Appartenenza4. La riflessione prosegue osservando nello specifico i rapporti tra ogni singola donna e il Movimento. Nel 1991 esce il numero 15 dal titolo Se tutte le donne5. Trascorsi cinque anni, la questione è ancora cercare “una riattivazione della politica pensata come necessità e quindi come passaggio dal pensiero sull’oppressione a quello sull’esistenza e libertà del soggetto femminile [che] significava e significa per noi misurare la presenza del soggetto in qualunque processo lo veda protagonista, nel suo apparire nel contesto sociale come in tutto ciò che costituisce il suo privato” (5).
Il lavoro del comitato redazione della rivista dimostra come, dalla fine degli anni Settanta in poi, sia evidente la progressiva disgregazione dello spazio collettivo, la riduzione dello spazio politico, la ritirata delle istanze e del discorso femminista in luoghi intimi e straniati dalla presa di parola politica. Prestando attenzione al modo in cui la questione è stata elaborata in queste pubblicazioni, è evidente come lo specifico lesbico abbia avuto una parte importante nel problema più generale. Ogni numero della rivista che abbiamo nominato, infatti, e che riflette sulla necessità di ripensare la dimensione del “tutte le donne” e della relazione della singola donna con essa, vede sempre un approfondimento sulla presenza delle lesbiche all’interno di queste dinamiche.
Il primo articolo che prendiamo in esame è nel fascicolo Mi piace non mi piace del 1986, è di Simonetta Spinelli6 e si intitola Je ne regrette rien7. In questo scritto Spinelli analizza il Sottosopra verde8 Più donne che uomini del 1983. Elaborato dalla Libreria delle donne di Milano, questo documento fa un bilancio del femminismo italiano del decennio trascorso, introducendo la necessità di dare vita a una nuova fase. Le componenti della Libreria di Milano scrivono che “se le donne hanno guadagnato relazione e autorevolezza nello spazio del “tra donne” non lo hanno fatto nello spazio sociale”. La questione è, dunque, la discrepanza tra un’autorevolezza crescente nello spazio separato femminista, e “il disagio e lo scacco” con cui le stesse donne vivono l’ambiente sociale, specialmente quello del lavoro. L’analisi del documento mostra come il separatismo dei piccoli gruppi femministi, invece di contribuire a creare una posizione autorevole e autonoma per ogni donna nel mondo, ha generato una distanza difensiva dalla società. In questo modo, l’isolamento femminile prodotto dal rapporto tra i sessi di stampo patriarcale, invece che risolversi si è protratto in una dimensione d’intimità scelta dalle donne stesse. La proposta per superare l’impasse, senza perdere i frutti raccolti da un decennio di autocoscienza e di relazioni comunque potenzianti, è di uscire dal separatismo per riproporlo, diffuso e capillare, in “una trama di rapporti preferenziali” nei luoghi sociali in cui le donne si incontrano. L’affidamento è il nome che prende questa nuova pratica, in cui è fondamentale il riconoscimento della disparità delle donne implicate nella relazione: le differenze di età, di autorevolezza, di esperienza, se riconosciute e valorizzate, sono motivo e senso di un legame fatto di sostegno e riconoscimento reciproco. L’ampliamento della sfera di intervento, che dal ristretto ambito femminista vuole abbracciare il mondo intero, si accompagna all’allargamento del bacino di interlocutrici cui le milanesi vogliono fare riferimento: non più solo le femministe, che hanno delle relazioni e delle pratiche consolidate, una storia e un linguaggio in comune, ma tutte le donne che necessitano di pratiche concrete per affrontare la società. L’intenzione è molto forte: condividere una riflessione, e soprattutto una soluzione, per reagire all’opinione condivisa, sia all’interno che all’esterno, che il femminismo sia in pieno riflusso. Infatti, il documento ha avuto un’eco incredibile per diversi anni e in numerosi ambienti femministi: la lucidità dell’analisi ha influenzato fortemente il dibattito della decade Ottanta. In questa cornice si inserisce questo articolo di Simonetta Spinelli, così come i successivi che prenderemo in esame.
Nel suo testo, Spinelli evidenzia i tratti positivi che rintraccia nel Sottosopra verde: innanzitutto, l’obiettività con cui viene osservato l’intimismo in cui sono cadute le relazioni tra donne e che si è rivelato una delle cause della perdita di presa sulla realtà del femminismo. Inoltre, per Spinelli è fondamentale il fatto che le donne di Milano vogliano andare oltre l’uguaglianza ideologica del movimento: quell’uguaglianza che è una finzione, e che ha contribuito a celare le numerose differenze tra donne con lo scopo di preservare il collettivo. Nell’articolo non mancano le critiche: cercando di andare oltre i limiti che denuncia, secondo Spinelli, Più donne che uomini accantona anche quanto il movimento ha prodotto in termini positivi. “L’autorevolezza del movimento consisteva nel fatto che si svelava la possibilità di ampliare – e quindi di rimandare costantemente – l’immagine della presenza sessuata delle donne e di renderla politicamente significativa, capace cioè di incidere” (23). In altri termini, il movimento aveva in sé la potenzialità di riunificare il personale e il politico delle donne che ne hanno preso parte: la mutilazione della sfera pubblica non era l’unica prospettiva pensabile per il movimento italiano. Al contrario, la Libreria di Milano pone arbitrariamente l’accento solo sull’avvenuta ritrazione nell’intimità e in questo modo enfatizza la necessità di sbilanciarsi nel terreno del lavoro e dei “commerci sociali” per uscire dall’impasse. In questo senso, secondo Spinelli, la proposta della pratica dell’affidamento, senza neanche cercare di rintracciare una connessione tra il guadagno ottenuto dalle relazioni tra donne e la necessità di aderire al mondo, produce l’ennesimo scollamento personale e politico nella vita delle donne.
In questo articolo, la pensatrice e militante non affronta la questione problematizzando la presenza delle lesbiche, ma già all’interno della critica a Più donne che uomini si riconoscono degli elementi interessanti. Il primo è legato al contributo del movimento per la soggettivazione di tutte le donne che lo hanno composto. Grazie ad esso, afferma Spinelli, «si sono rivestite di autorevolezza quelle pratiche che permettevano alle donne di porsi una di fronte all’altra con titolarità di presenza […] e di rimandarsi immagini che non si negavano reciprocamente» (23). Pratiche di ascolto e di rispetto, che hanno dato spazio alla differenza che ognuna portava al contesto. Il secondo è legato alla particolarità di un orizzonte che, coinvolgendo ogni donna nella sua specificità, è di tipo sessuato: “parole autorevoli sono state quelle che […] andavano contro la cancellazione, che ridefinivano il desiderio come voglia di dirsi di sé a partire dal dato materiale di un corpo di donna sessuato” (23). La cancellazione delle esperienze delle donne è stata oltrepassata nel femminismo ponendo il corpo di donna come base da cui iniziare un discorso soggettivo e riconoscibile sul mondo. Entrambi gli aspetti sottolineano come la visibilità e la nominazione siano state pratiche fondamentali per la soggettivazione e per la creazione di un movimento ampio: torneranno in forma più esplicita a dare corpo al discorso di Spinelli riguardo la presenza delle lesbiche nel femminismo.
Nel fascicolo Appartenenza del 1986 ci sono due articoli che entrano nel merito della questione che stiamo esaminando. Il primo è Doppio movimento9, di Ida Dominijanni. In questo testo Dominijanni compie un’analisi di Più donne che uomini declinata a partire dal punto di vista sull’appartenenza. La ragione del titolo dell’articolo sta in quello che la pensatrice femminista riconosce come un movimento di partenza-appartenenza: “le femministe nascono in questa forbice: vogliono con libertà intraprendere il loro viaggio nel mondo, e vedono che nel cominciare questo viaggio devono contemporaneamente scoprire, produrre la propria origine, la propria appartenenza” (17). Secondo Dominijanni, questa doppia tensione è caratterizzante il femminismo italiano fin dall’inizio: negli anni Settanta le due istanze si tenevano insieme grazie al movimento di massa, la principale forma di mediazione tra donne e tra donne e mondo. Al principio degli anni Ottanta, il Sottosopra verde fa da spartiacque per l’analisi del periodo storico che il femminismo sta vivendo. Il documento della Libreria delle donne di Milano, per l’autrice, si è fatto portavoce della nuova consapevolezza che il movimento ha tradito la sua intenzione principale: “la comunità delle donne, più che un generatore di forza, si è rivelata paradossalmente un generatore di debolezza” (18). Come abbiamo già visto, le donne della Libreria di Milano, a partire da queste considerazioni, propongono l’uscita dal separatismo del movimento in favore di relazioni tra donne potenzianti che siano diffuse in tutti gli ambiti sociali. In questo modo si ottiene, “rispetto al passato, un di più di enfasi sull’origine – l’appartenenza al sesso femminile come dato originario […] – e un di più di mondanizzazione – l’ipotesi vale dappertutto, non solo nella conventualità dei luoghi separati ma in tutti i “commerci sociali” […]. Il “doppio movimento” che dicevamo all’inizio si potenzia in tutti e due i fronti” (19). Nonostante il tentativo di tenere in equilibrio i due assi della questione, il punto di vista di Dominijanni è evidentemente proteso a dare maggiore importanza all’appartenenza come origine sessuata di ogni donna e a interpretare le appartenenze che implicano l’entrata nel mondo sociale come problematiche. In questa lettura, l’essere donna non è più un’esperienza conflittuale dentro di sé e nella relazione. L’autocoscienza e il femminismo sono stati i processi entro cui le donne hanno potuto confrontarsi tra loro e superare le difficoltà. Le riflessioni successive possono partire da questo dato di pacificazione e concentrarsi su quanto impegna le donne a vari livelli. Le altre appartenenze sono gli ambiti e gli interessi che, in misura meno radicale ma non per questo superflua, compongono l’identità di ogni singola: “appartenenze parziali” a detta di Dominijanni, “sempre mutilanti e spesso infelici, ma tenaci, coinvolgenti, reali” (20). Esse fanno problema in quanto, estranee all’appartenenza fondamentale, costituiscono il terreno per conflitti sia interni che in relazione: per questa ragione spesso, riconosce Dominijanni, sono tenute sotto silenzio. Il silenzio si fa ancora più problematico quando è motivato dalla difficoltà a gestire le differenze interne al movimento che negli anni e nei decenni hanno creato notevoli motivi di separazione. Queste le parole di Dominijanni a riguardo: “[…] il gioco delle appartenenze diventa solo qualche volta, nella pratica politica di oggi, gioco di libero confronto, e più spesso è fatto di rimozioni, silenzi, veti incrociati: appartenenze non dette, […] rendendo il testo reale di qualunque riunione tra donne infinitamente più complesso e indecifrabile del suo testo esplicito” (25). Al contrario, quello che le donne devono fare nell’attualità di Dominijanni è “ricostruire e riattraversare le appartenenze […] non per andare alla ricerca di divisioni, certificati di garanzia dei diversi percorsi, ma per tradurre nell’agenda di oggi gli spessori e le storie di cui esse sono fatte, esplicitando i conflitti, motivando le scelte, dichiarando le richieste di legittimazione” (25-26). Un’affermazione che sembra un appello a rivitalizzare le relazioni tra donne in quanto nervo del femminismo: nella dialettica della pensatrice femminista, la nominazione è di nuovo possibile in quanto la centralità della propria appartenenza sessuata – l’essere donna all’origine e prima di ogni altra connotazione – costituisce un baricentro stabile da cui risulta meno problematico, meno dannoso esprimere le proprie differenze. Ma con un’eccezione, che Dominijanni pone tra due parentesi: “(non accenno neanche, qui, alla più innominata delle appartenenze, se così si può chiamare l’opzione omosessuale o eterosessuale delle donne, sulla quale il femminismo italiano ha scelto giustamente, e diversamente da quello che è avvenuto in altri paesi, di non dividersi, ma che rischia oggi di diventare una causa non secondaria di opacità del dibattito politico)”. (25, corsivo mio). Alla possibilità di nominarsi a partire dalla differenza di orientamento sessuale è direttamente imputata la spaccatura del movimento. La scelta di non parlarne è misurata sul rischio di rottura dell’ampio dialogo tra femministe. Dominjianni stessa si rende conto che emendare un punto di tale importanza porta con sé un ritorno del discorso in altre forme, lascia un’opacità che rischia di intralciare il percorso per tutte. Questa consapevolezza, però, non sposta il discorso: la nominazione della questione lesbica non è possibile, può essere solo detta velocemente, tra parentesi tonde che sembrano essere una cornice necessaria a contenerne la possibilità di valicare i confini. A questo punto, alcune domande interrogano queste pagine: per quale motivo, secondo Dominijanni, lo specifico lesbico deve restare innominato? Le nuove potenzialità che emergono da un essere donna pacificato, e che Dominijanni sembra accogliere come un rilancio per tutte, non si esprimono in questa specifica circostanza? Forse quella lesbica è una differenza tanto pericolosa nella sua radicalità che neanche la nuova sicurezza acquisita a partire dalla comune differenza sessuale può contenere?
Il secondo articolo di nostro interesse nel fascicolo Appartenenza è di Simonetta Spinelli, Il silenzio è perdita10. Spinelli prende posizione a favore della nominazione come pratica in grado di agevolare la soggettivazione delle donne. In questa sede, la pensatrice, mentre compie una critica interna al contesto femminista, lavora all’accumulazione di uno specifico sapere lesbico. Spinelli spiega come il silenzio sia l’approccio con cui le lesbiche hanno da sempre trattato la propria intimità. Il silenzio, per ogni singola donna lesbica è necessario: esso si erge “a difesa di un’intimità che sembra di avvilire nominandola” (49) e in questo modo preserva l’identità, che una volta espressa pubblicamente si banalizza e disperde, disperdendo anche colei che ne viene connotata. All’interno del movimento femminista queste dinamiche non si modificano, anzi si rinforzano. La reticenza delle lesbiche a rendere pubblica la propria esperienza di desiderio e di soggettivazione fa sì che la loro tensione politica si diriga interamente verso la rivendicazione politica piuttosto che verso la pratica di nominazione. Le parole di Spinelli a questo proposito affermano che “è più facile esprimere una protesta, difendere una strada comune alle altre donne […]. Ogni cosa ci […] attrae, basta che non tocchi, a livello singolo e collettivo, quel fulcro di sapienza di intimità che […] non si deve dire, perché scioglierne i nodi è rischiare di perderci” (50). D’altro canto, la collettività delle donne, spaventata dalla “minaccia di frattura, di abbandono” (50), non cerca di evidenziare e forzare il silenzio così da far emergere i vissuti di tutte le donne che compongono il movimento. Al contrario, esso diventa una base salda su cui far fiorire l’appartenenza a “tutte le donne”. Infatti, secondo Spinelli, grazie a questa specifica rimozione, prodotta dalle lesbiche e agevolata dalle altre donne, “si è prodotto un immaginario di corpo sociale omogeneo, quasi omologato, che era costantemente smentito dalle pratiche, né omogenee né omologabili” (52). Il soggetto collettivo del femminismo dimostra così di essere connotato dall’astrazione: la sua ricerca, avulsa dalle esperienze e dalle pratiche concrete che la mettono costantemente alla prova, è segnata dall’omologazione e dalla cancellazione delle differenze. La proposta di Spinelli muove in direzione contraria. Riflettendo a partire dal tema centrale della rivista, spiega che “l’appartenenza a” un movimento come luogo di un’identità ampia e astratta si contrappone all’“appartenenza a se stesse”: la cifra dell’esistenza personale non può essere riposta all’esterno, pur essendo esso composto da donne. Detto con le parole di Spinelli “il terrore di essere di nuovo appartenenti a nessuna” fa sì che si prenda parte a “una rimozione (che) rompe un patto con sé, e provoca un’espropriazione che nessuna ‘appartenenza a’ può sanare” (52). In questo senso, “appartenenza per una donna lesbica è percorso di esplicitazione di quel sapere di intimità” (52) che deve contrastare il bisogno consolatorio e difensivo di far parte di una dimensione collettiva. La vera perdita, dunque, è costituita dal silenzio posto sulla propria esperienza. Spinelli non intende disconoscere come esso sia stato un importante motivo di riconoscimento personale e sociale per le lesbiche. Tuttavia, in un contesto che lo rende privativo, esso non è più accettabile a diversi livelli: per ogni singola, che rimane un corpo muto con un desiderio sessuato che rimane innominato; per le altre donne, che senza narrazioni reali hanno solo l’immaginario per pensare l’altra; per la cultura, che rimane incompiuta e manchevole in quanto non conosce nessun tipo di accumulazione del sapere delle donne lesbiche; per la politica femminista, che non vede la crescita di consapevolezza ma continua a vivere di pratiche e relazioni parziali e riduttive. Termina Spinelli su un appunto che rideclina le citazioni riprese da Je ne regrette rien: “esplicitare una pratica di intimità non significa riproporre divisioni, né opporre l’una all’altra le vite delle donne. […] Perché questo abbiamo fatto negli anni, espresso politicità costruendo lo spessore delle nostre vite” (53). Parole, queste, che sembrano riecheggiare quanto detto in conclusione da Dominijanni, ma l’eccezione delle donne lesbiche non si pone. Il legame tra politica e nominazione è stretto, e Spinelli questa volta concentra la sua attenzione sulla responsabilità che le donne lesbiche devono assumersi: la reticenza a parlare di sé, causata dalla paura dell’abbandono e dell’essere causa di conflitto, va spezzata per dare voce alla propria esperienza. Alle domande emerse dall’articolo di Dominijanni, si aggiunge, dunque, un forte appello affinché le lesbiche diventino attive nell’emergere dalla loro condizione di cancellazione dalla sfera pubblica: il conflitto che può conseguire da una tale presa di posizione ha tutto il vantaggio di portare fino in fondo il processo di politicizzazione del privato che ha animato il femminismo.
Arriviamo al 1991, e al numero 15 di DWF, dal titolo Se tutte le donne. In questo numero, gli articoli che ci interessano sono di Simonetta Spinelli e di Teresa De Lauretis. Quello di Spinelli è intitolato Nell’insieme e nel dettaglio11. In queste pagine, come ne Il silenzio è perdita, l’analisi politica del femminismo è lo spazio per mettere a tema la pratica e il sapere lesbico, in modo che ne venga esplicitata l’utilità per la politica di tutte le donne. L’insieme e il dettaglio rappresentano nel discorso due modi di osservare che sono anche due condizioni dell’esistenza. Lo sguardo dell’insieme è ampio sull’orizzonte, coglie il generale fuori dal tempo. Esso è lo sguardo della politica e della progettualità. Lo sguardo del dettaglio è stretto sui particolari, sulle piccole differenze significative. È lo sguardo del personale, punto di vista frammentato e immerso nella vita. Spinelli afferma che il femminismo ha permesso a tante donne di imparare a passare dallo sguardo dell’insieme allo sguardo del dettaglio: in questo modo, coloro che hanno sperimentato le pratiche femministe, sono uscite dal campo dell’astratto e dall’alienazione, imparando a dare peso e pensiero alle proprie vite. È in questo contesto che si pone immediatamente la differenza lesbica: “per una donna lesbica” afferma Spinelli, “la visione o è bifocale o non è” (26). Nella vita di una lesbica, la rappresentazione e la realizzazione più materiale del desiderio costituisce già uno scardinamento dell’ordine simbolico dominante: il dettaglio del corpo del desiderio (il corpo dell’altra come desiderato e il proprio corpo come desiderante) è già spazio di rottura dell’insieme del mondo patriarcale che vuole la donna esclusivamente come oggetto del desiderio maschile. Posta in questi termini, la posizione lesbica è di estrema importanza per le donne che si accompagnano a loro nei collettivi: il suo contributo consiste nel dare costantemente un esempio concreto di sottrazione dai rapporti di potere tra uomini e donne. Un esempio dalla forte valenza politica, perché può spingere a porre condizioni nuove per il discorso collettivo. Pur sottolineando in prima istanza questa possibilità, Spinelli, come nell’articolo precedente, non trascura la complessità della questione: l’intrinseca capacità lesbica di stare a cavallo tra la propria esperienza e la sua traduzione politica si rivela nel movimento femminista fonte di estrema impotenza. Nominare la relazione con l’altra, relazione personale e politica a un tempo, significa esporre pubblicamente, senza difese né mediazioni, la propria intimità. Spinelli conferma quella forma di riserbo già affrontata, aggiungendo che per una donna lesbica intrecciare l’esperienza personale con quella politica provoca un investimento totale da cui molte ritengono necessario ritrarsi. Tuttavia, rispetto all’articolo di qualche anno precedente, la pensatrice femminista qui riprende l’argomento in maniera più incisiva ed afferma che la potenzialità della specificità lesbica in un contesto femminista è massima: essa rende esplicito e concreto l’intreccio tra personale e politico che per Spinelli è condizione indispensabile per la tenuta politica del femminismo. La visione sull’insieme e il dettaglio fa sì che per una donna lesbica non sia possibile scindere tra il desiderio per una donna, per questa donna, e l’interesse e l’investimento per tutte le donne. In questa interpretazione, la politicità che sta alla base del desiderio lesbico ribalta completamente le maggiori critiche che ha ricevuto: esso non è più motivo di rottura tra femministe, ma un saldo e concreto fondamento su cui costruire il “tutte le donne”. Allo stesso tempo, il contesto femminista è fondamentale perché la dinamica di intreccio tra esperienza personale e politica sia feconda. A questo proposito, Spinelli afferma che “il privato e il politico sono […] così strettamente interrelati da non poter presumere l’uno senza la costruzione di libertà femminile che è fondamento dell’altro, e questa interrelazione non è concepibile se nello stesso tempo non mette in campo la necessità di quel pensarsi donna che è connotato di tenacia, perché da esso dipende proprio la consapevolezza di esistere come corpo di desiderio” (27). Pensarsi donna nell’intreccio tra personale e politico è, dunque, l’elemento che inserisce le lesbiche nell’ampio panorama della libertà femminile e che costituisce la base perché il loro contributo specifico si possa esprimere dentro al movimento delle donne.
La conclusione dell’articolo è un richiamo alla responsabilità che consegue da tali considerazioni: la necessità consiste nel lavorare per contrastare lo scollamento tra vissuto personale e presenza nella società, tra individuo e soggetto sociale, tra insieme e dettaglio per contribuire singolarmente alla tenuta della dimensione collettiva necessaria a tutte. Afferma Spinelli che “oggi il problema più urgente sembra […] edificare un ponte che, a vari livelli, permetta l’aggancio di pratiche differenziate a quella costruzione di pensiero” (29). Ancora una volta, la frattura visibile nel femminismo è quella che ha a che fare con il continuo sbilanciamento ora verso l’intimismo autoreferenziale ora verso l’attenzione verso la società. La scommessa è di tentare ancora il rinsaldamento delle due sfere in modo da poter vedere la nascita di soggetti completi, non alienati in una disposizione che totalizza una dimensione mentre offusca e getta l’altra nell’indifferenza e nell’inazione. In questo richiamo a riprendere lo spirito dei primi anni del femminismo, secondo Spinelli le lesbiche hanno una posizione precisa: “devono riuscire a esplicitare, al di là delle reticenze e dei mimetismi […] che mutamento di pratica ha comportato e comporta, l’investimento della loro vita verso un’altra donna. Quale dimensione di libertà femminile costruisce, quale svelamento opera e, quindi, quale autorevolezza fonda”. Data l’importanza rivelata dalla presenza di donne omosessuali in un contesto separato, è prima di tutto fondamentale, colmare l’assenza di narrazioni e di pensiero che possa essere accumulazione di sapere e di esperienza per tutte. La politicità del lesbismo, infatti, risiede proprio nella comprensione del valore che ha in sede politica la propria nominazione: conclude Spinelli che “il linguaggio imparato con una donna è delle altre se produce un segno di libertà che dalle altre si faccia riconoscere” (29). Questa riflessione va oltre le precedenti che abbiamo esaminato: essa spinge a indagare con maggiore profondità le dinamiche che hanno costituito il conflitto posto dalle lesbiche nel femminismo. La domanda che questo articolo spinge a porre è: per quale motivo e secondo quali dinamiche le lesbiche, pur costituendo un valido incentivo al discorso e alle pratiche di autodeterminazione delle donne, non hanno preso consapevolezza della propria posizione e della propria responsabilità all’interno del panorama collettivo?
L’altro articolo che esce nel numero 15 di DWF è intitolato La pratica della differenza sessuale e il pensiero femminista in Italia12. Lo scritto è di Teresa de Lauretis, e alla sua argomentazione dobbiamo in gran parte lo spunto per la ricostruzione compiuta nel nostro lavoro. Questo articolo è la traduzione della prefazione che de Lauretis ha scritto per Non credere di avere dei diritti. Redatto dalla Libreria delle donne di Milano nel 1987, il volume riprende e approfondisce la riflessione iniziata con il documento Più donne che uomini del 1983. L’intento delle donne della Libreria è dare un’ossatura teorica più salda alla proposta dell’affidamento e del riconoscimento di autorità tra donne. De Lauretis traduce e cura il libro in inglese: vuole introdurre negli Stati Uniti la differenza sessuale, convinta essa sia un buon esempio di pratica politica basata su una libera autorità femminile e dunque in contrasto con la tradizione femminista statunitense che ritiene sin troppo sovradeteminata da istanze politiche e culturali estranee. Dopo essersi soffermata sul percorso teoretico e politico intrapreso dalla differenza sessuale, de Lauretis fa un resoconto del vivace dibattito che il libro ha prodotto in Italia. La questione lesbica rientra in una serie di obiezioni che la filosofa esamina. Una prima critica che de Lauretis propone è quella che Grazia Zuffa riporta in un articolo pubblicato sulla rivista femminista Reti13. Afferma de Lauretis che il discorso di Zuffa attacca la pratica dell’affidamento e la costruzione di un simbolico femminile autonomo dal dominio maschile in quanto producono un separatismo troppo netto centrato “sul rifiuto della dialettica maschio-femmina” (50). Secondo questa interpretazione, Non credere di avere dei diritti imporrebbe un “fondamentalismo omosessuale” in seno al femminismo italiano (50): la pratica politica della differenza sessuale deriverebbe esplicitamente da una pratica di socialità lesbica. Seguendo la ricostruzione di de Lauretis, e gli articoli già esaminati, tale ipotesi non è convalidata, a partire da differenti valutazioni, né dall’articolo di Dominijanni Doppio movimento né da Il silenzio è perdita di Spinelli. Come osservato, Dominijanni evidenzia, dandone un giudizio positivo, la scelta del movimento femminista di non dividersi sulle implicazioni dovute dall’orientamento sessuale e il fatto che non è mai stata posta la questione dell’“opzione omosessuale”. L’analisi di Dominijanni sembra essere consonante con l’intenzione che ha guidato la scrittura di Non credere di avere dei diritti, e de Lauretis ne trova conferma in un passo del libro che cita: “il trovarsi a vivere in una comunità di donne è stata una esperienza straordinaria la cui scoperta più forte fu che lì circolava un intenso erotismo. Non era lesbismo, ma sessualità non imprigionata nel desiderio maschile” (51). Questa affermazione della Libreria delle donne di Milano parte dall’aver esperito il piacere erotico vissuto in un contesto separatista di donne. Così come abbiamo accennato nella premessa al nostro articolo, anche qui l’erotismo circolante viene edulcorato, rimesso in una dimensione più generale che rifiuta radicalmente l’ascendenza da una sessualità lesbica. In tal senso, de Lauretis commenta che quella citata è l’unica frase del libro in cui compare la parola lesbismo, e solo per negarne la validità. La pensatrice femminista prosegue chiedendosi: “Cosa si intende per lesbismo se non una sessualità femminile non costretta o autonoma dal desiderio e dalla definizione maschile?” (51). Sembra chiaro l’intento di depotenziare nella sua portata politica il lesbismo che, persa la caratteristica intenzione di svincolarsi dal desiderio e dal potere maschile per acquisire autonomia femminile, rimane circoscritto all’intimità dell’esperienza singolare.
A questo punto dell’argomentazione di de Lauretis entra in gioco Il silenzio è perdita di Spinelli. L’articolo in questione precede la pubblicazione del libro di un anno ma, riferendosi alla riflessione iniziata con Più donne che uomini, sembra allo stesso modo rispondere meglio di altri alla questione: Non credere di avere dei diritti è un testo che, nel dare vita a una nuova teoria femminista, evita intenzionalmente di porsi come lesbica. Spinelli termina il suo articolo affermando: “e mi sembra contraddittorio […] riproporre la miseria di una parola che da me parte, ma in qualche modo obliquo anche mi evita” (53). Nell’argomentazione di de Lauretis, tale affermazione fa da controcanto al passo di Non credere di avere dei diritti, creando così un dialogo che segna i termini del conflitto. Andando oltre la necessità di dire la propria esperienza, le parole di Spinelli colgono un movimento di una teoria e di una pratica che vengono elaborate a partire da uno specifico lesbico, che riconoscono il proprio tratto distintivo, ma che, andando all’esterno, cambiano traiettoria ed evitano di riconoscere e nominare la propria origine. De Lauretis pone una domanda lapidaria quanto retorica: “è questa una teoria che non osa dire il suo nome?” (52). La filosofa ribadisce che, secondo le categorie interpretative femministe nordamericane, la proposta della Libreria delle donne di Milano – separatista, che pone al centro le relazioni e un simbolico potenziante delle donne, a discapito delle relazioni con il maschile – sarebbe letta come femminista e lesbica (52). Secondo de Lauretis, il rifiuto di dare spazio a queste radici è dettata dalle necessità di parlare a tutte le donne per creare un pensiero egemone nel movimento femminista: essa non di meno subisce l’effetto del discorso eterosessuale che, anche in una teoria esplicitamente e radicalmente separatista, “impone l’escissione proprio di quella figura che è più capace di significare la resistenza a quel dominio, e il rifiuto senza mezzi termini di quell’istituzione” (52).
De Lauretis riporta anche un’altra ipotesi interpretativa, proposta da Luisa Muraro in uno scambio epistolare. Nella sua riflessione Muraro esplicita in poche battute qual è l’intenzione delle donne della Libreria di Milano. Il nucleo politico che sottende questo discorso è che la libertà femminile è l’unico scopo che può far riunire tutte le donne. Per creare le condizioni di possibilità per una libertà che sia per tutte e a nome di tutte – né per alcune né a nome di alcune – si può solo lavorare a modificare l’ordine simbolico, creandone uno femminile e autonomo. È questa impostazione, che sposta l’azione dal confronto nel piano politico all’elaborazione nel piano simbolico, che rende le redattrici di Non credere di avere dei diritti “relativamente indifferenti alle possibili conseguenze e possibili usi della libertà” (53). Non è sufficiente, dunque, restare nel campo dei comportamenti concreti e reali: essi sono tuttora sovradeterminati dall’ordine patriarcale, così come lo sono tutte le differenze che si pongono tra donne e che diventano causa di conflitti e divisioni. La distinzione tra donne eterosessuali e omosessuali è mutuata dal dominio maschile che si rinforza con la competizione tra donne. In questo senso, il lesbismo non può essere considerato “un principio o una causa o un fondamento della libertà” femminile (53) ma una differenza che deve essere posta sotto silenzio per avanzare nella produzione di un simbolico che accolga tutte le donne. La risposta di de Lauretis è critica, ma consapevole dell’importanza di quanto elaborato in Non credere di avere dei diritti. Il problema, che abbiamo già ampiamente descritto, nelle parole della pensatrice si esprime come “lo sforzo di definire il desiderio e l’esser soggetto femminile nel simbolico” ha il limite di non “prestare sufficiente attenzione al lavoro dell’immaginario nella soggettività e nell’identità sessuale” (53-54). L’obiezione è di natura filosofica: pur rimanendo nel piano della costruzione contingente, storicamente e politicamente determinata, quindi fuori da pretese essenzialistiche, l’elaborazione delle donne di Milano non mette in crisi lo statuto del soggetto di stampo occidentale e patriarcale. Questa elaborazione, infatti, muove troppo vicina all’idea del soggetto universale: anche se declinato al plurale e senza contenuto definitorio, il “tutte le donne”, come ogni altro soggetto a pretesa universale, necessita di una semplificazione della realtà e dunque di un taglio violento delle differenze specifiche tra e dentro i soggetti singolari che lo incarnano. Come detto, de Lauretis è ben consapevole dell’importanza di questa elaborazione: afferma, infatti, che “il concetto di differenza essenziale e originaria rappresenta un punto di consenso e un nuovo punto di partenza per il pensiero femminista in Italia” (54) ma è altrettanto consapevole che essa deve essere riformulata in modo che ricomprenda le differenze tra donne e dentro ogni singola. Affinché esse non siano più ostaggio del dominio maschile, che divide il reale attraverso il binarismo eterosessuale, è necessario che le differenze delle donne vedano la propria comprensione (comprensione nel senso esistenziale e intellettuale oltreché nel senso di capacità di prenderle dentro di sé) all’interno di un ordine femminile che sappia porre delle condizioni autonome, così da dare ospitalità a ogni singola donna incarnata.
3. Conclusioni: cosa accade oggi?
Negli ultimi anni, collettivi femministi, lesbici, lesbofemministi e queer hanno iniziato a gettare le basi per andare oltre la frattura sin qui delineata: le differenze si fanno di nuovo parlanti per quelle donne che hanno deciso di consegnare le proprie al discorso condiviso. I saperi e le pratiche intersezionali rendono possibile la riflessione tra multipli livelli di differenze che non si smentiscono una con l’altra, ma sono finalmente dicibili in un nuovo linguaggio del conflitto e della relazione. Tuttavia, gli sviluppi positivi visibili in particolar modo negli ultimi anni, restano casi isolati che non riescono a costruire un discorso riconoscibile e in grado di incidere concretamente sui cambiamenti in atto nella società odierna. Quanto messo in campo dalle nuove generazioni di donne non smentisce del tutto le conseguenze, ancora oggi evidenti, dei conflitti che abbiamo tentato di descrivere nel dettaglio. Perché ciò avvenga è necessario un generale e ampio ripensamento di quanto avvenuto nei decessi trascorsi, e che ancora influenza fortemente la capacità di creare alleanze: tutto ciò è premessa necessaria per rifondare una dimensione collettiva tangibile e quindi realmente trasformatrice.
Come già detto nella premessa, le domande che muovono la ricostruzione del dibattito elaborato in questo articolo hanno al centro il presente e le sue questioni: cosa hanno prodotto le scelte fatte? Che ne è del femminismo che ha deciso di non dividersi sulla differenza lesbica? Che ne è del percorso autonomo del lesbofemminismo, sorto dopo aver rifiutato di porsi conflittualmente nel “tra donne”?
Lo spazio separato che ha permesso alle lesbiche di dirsi autonomamente ha dato vita a un movimento lesbico che per numerosi anni, tra gli Ottanta e i Novanta, ha accresciuto notevolmente la presa di parola del lesbismo nell’ambito politico e la visibilità delle singole donne lesbiche nella società. Ma lo spazio acquisito si è ridotto in maniera considerevole negli ultimi anni. Ciò è dovuto alla scelta di spostare le proprie energie da una politica della nominazione e della visibilità in favore di una politica come rivendicazione di diritti. Questo spostamento su un differente scopo ha determinato un cambiamento radicale delle pratiche politiche. Il cambiamento più significativo è legato alla scelta di stringere alleanza con gli uomini gay, riunendo le due soggettività – gay e lesbica – nella comune lotta per la conquista di diritti. La capacità aggregativa, la struttura ordinata, capillare e gerarchica dell’associazione nazionale che riunisce persone gay, lesbiche e transessuali sotto la sigla LGBT ha comportato un rilancio per le lesbiche in termini di possibilità di raggiungere traguardi impensati e insperati nei decenni precedenti. Non si può tuttavia ignorare come quella reticenza ad allontanarsi dal riferimento agli uomini, che una volta è stata la molla del conflitto e che aveva causato l’allontanamento delle lesbiche dai gruppi femministi, oggi sia la loro realtà politica più rilevante. E non si può ignorare, come sottolinea Valeria Santostefano, il paradosso che questa scelta rappresenta (Santostefano 2008): il desiderio di maggiore incisività nello spazio politico ha riprodotto una sostanziale gregarietà nei confronti della componente omosessuale maschile che lascia parecchi dubbi sulla visibilità guadagnata dalle lesbiche come soggetto autonomamente nominato e riconoscibile.
Per quanto riguarda il femminismo, l’allontanamento delle lesbiche e la più generale riduzione della pratica della nominazione, hanno prodotto delle conseguenze che oggi non possiamo ancora valutare appieno ma di cui possiamo riconoscere alcuni elementi importanti. Nel 2011, le Diversamente Occupate hanno pubblicato per la rivista DWF due numeri sulla sessualità intitolati Questo sesso che non è il sesso14. Nella premessa al primo dei due numeri, le giovani componenti del gruppo denunciano la grave perdita di un discorso sulla sessualità15. Più propriamente, è assente una parola sul sesso come esperienza concreta e reale che necessita condivisione. E mostrano lo scarto avvenuto nel femminismo: “condividere e riappropriarsi dell’esperienza del corpo e del sesso è stato centrale nei gruppi di autocoscienza degli anni Settanta. […] Nella nostra esperienza si è passate da un confronto spontaneo sui rapporti, sul piacere e sul desiderio, a una grande solitudine” (7). Questa solitudine, frutto dell’assenza di un discorso pubblico sulle rappresentazioni e sulle narrazioni di una sessualità femminile libera, ha prodotto “una vera e propria mutilazione”, la mancanza di punti di riferimento e di parole per dire la propria esperienza, sia per quelle giovani che hanno intrapreso il percorso femminista, sia per quelle che, anche se esterne, non ne hanno potuto cogliere le influenze nel discorso pubblico (8). La sessualità è stata e resta ancora oggi un tema fondamentale: da essa storicamente prende avvio l’aggancio tra personale e politico nel femminismo italiano; l’attualità, denunciandone la scomparsa, rinnova l’appello alla sua rinascita nel discorso pubblico. Anche un saggio di Olivia Guaraldo, pubblicato nel 2011 dalla rivista DWF, conferma questa perdita di parola femminista sulla sessualità e la inserisce in un quadro di considerazioni politiche più generali. La pensatrice riflette a partire dal nodo sesso-denaro-potere che si è fatto dirompente in Italia con gli scandali sessuali dell’allora Presidente del Consiglio Berlusconi. In questa sede, Guaraldo afferma che “a fronte delle trasformazioni storico-materiali, sociali e culturali in atto, la teoria femminista abbia in qualche modo latitato, abbia forse abdicato – magari in maniera inconscia – a confrontarsi con esse. La mia impressione è che, paradossalmente, il soggetto femminista anziché pluralizzarsi, anziché superare la rigida dimensione identitaria, si sia in realtà fossilizzato, irrigidito, sottraendosi a un confronto doloroso ma necessario con le trasformazioni” (13). Il punto focale che Guaraldo mette in evidenza è che, ad oggi, è evidente come il femminismo italiano non riesca a mettere a fuoco il presente nelle sue trasformazioni. Secondo questa analisi, la mancanza di lettura dell’attualità è causata dal fatto che il femminismo si è bloccato sulla reiterazione di un’identità – quella di “tutte le donne” – che non si dimostra più al passo con i tempi. Essa, infatti, una volta svuotata delle esperienze personali e delle differenze che la nutrivano, ha perso la dimensione collettiva come spazio di riconoscimento delle singole donne e come tessuto che legittima e fa da eco alle voci di ognuna. Senza questa prospettiva ampia, infatti, i gruppi e le personalità che tentano un’elaborazione della politica contemporanea in chiave femminista, non riescono ad arrivare all’opinione pubblica se non con fatica. Essi non vengono percepiti come parte di un movimento che prende parola su fatti di interesse comune, quanto piuttosto come delle voci isolate e frammentarie che rappresentano istanze scollegate una dall’altra. Tutto questo avviene mentre l’attualità preme e necessita di risposte: il personale che le femministe hanno nominato, aprendo gli armadi della segretezza e del pudore, oggi è esploso nello spazio pubblico, scardinando la millenaria divisione tra le due sfere. Allo stesso tempo, questa politicizzazione della sfera personale non è stata esclusivamente virtuosa: al contrario, l’attenzione pubblica su di essa sta prendendo con sempre maggiore evidenza la forma del controllo. Lo svelamento dei corpi, l’aumento di libertà sessuale e di espressione per le donne si accompagnano al loro uso come merce e strumenti comunicativi; il logoramento della divisione dei ruoli naturalizzati di uomini e donne ha aperto a un riconoscimento di nuove soggettività che riesce a esprimersi e rendersi visibile solo nel campo della legiferazione; la conquistata libertà femminile, nell’incontro con altre culture deve essere garantita e non strumentalizzata. Questo nuovo incrocio tra privato e pubblico rende, quindi, necessario che il femminismo esprima molteplici e variegate posizioni – che si pluralizzi, per usare le parole di Guaraldo –, in modo da creare un discorso all’altezza della complessità del presente da affrontare.
Bibliografia
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