Recensione di Brunella Casalini
L’appello a partecipare alla giornata di mobilitazione nazionale del 13 febbraio 2011, promosso da Se non ora, quando?, chiamava a raccolta le donne che studiano, si sacrificano e barcamenano tra famiglia e lavoro, contrapponendole al mondo effimero e corrotto delle giovani donne abbagliate da sogni di carriere e soldi facili ottenuti mediante lo scambio di sesso e denaro. In quell’appello alcune intellettuali hanno letto il pericolo di un atteggiamento censorio verso una parte dello stesso mondo femminile e scorto una preoccupante vena di “razzismo intriso di sessismo e di classismo: donne sacrificali (quelle che vanno a letto presto e si alzano presto) verso ragazze a ore (quelle che vanno a letto col capo), moralità verso apatia dei sentimenti, anime verso corpi” (così scriveva Maria Nadotti sul “Corriere della Sera” dell’11 febbraio 2011) Vicina a questa posizione è stata, fin dall’inizio, anche la filosofa politica Valeria Ottonelli, che ora, in questo agile volume scritto con piglio vivace e provocatorio, colloca molte delle posizioni emerse nel recente dibattito femminista all’interno del c.d. “femminismo moralista”.
Quali sono le caratteristiche distintive del “femminismo moralista”? Esso chiede che la liberazione della donna passi attraverso una riforma dei comportamenti e della morale, che stigmatizza alcuni usi della libertà sessuale e del corpo femminile; vede nella virtù il fondamento dell’ordine sociale (p. 10); e, infine, nella forma specifica in cui ha preso piede in Italia nell’ultimo anno, abbraccia e ripropone il modello e i valori “tristi e stantii della vecchia famiglia borghese” (ivi, p. 20).
Quattro, in particolare, sono i temi su cui le posizioni del “femminismo moralista” appaiono all’autrice non solo inadeguate, ma veramente pericolose: il modo in cui viene affrontata la questione della rappresentazione del corpo delle donne in televisione, la lettura proposta del vecchio motto femminista il personale è politico, l’interpretazione che nella letteratura sociologica è stata avanzata del fenomeno del lavoro di cura migrante e, infine, la questione dei congedi parentali obbligatori per gli uomini. In tutti questi casi, il femminismo moralista ha fatto leva sulla necessità di una riforma dei comportamenti individuali, quando avrebbe dovuto insistere sul bisogno di cambiamenti strutturali capaci di incrementare e rafforzare la libertà e il potere effettivo delle donne. In altri termini, se le femministe moraliste aspirano ad un mondo in cui ci siano meno donne rifatte, meno maschilismo e sessismo, per Ottonelli bisognerebbe piuttosto mirare alla creazione di un mondo dove esistano norme, condizioni materiali e politiche per proteggersi contro gli abusi di un eventuale esercizio maschilista del potere.
Sui primi due temi, rappresentazioni del corpo e rilevanza dei comportamenti privati nella valutazione dell’azione di un uomo politico, ciò a cui si è data enfasi, in una prospettiva moralista, è stata la ferita inflitta alla stima di sé delle donne. Da un punto di vista politico, invece, muovendosi su un piano deontologico, ci si sarebbe dovute porre il problema delle conseguenze in termini – potremmo dire con Nancy Fraser – di “equità partecipativa”: la rappresentazione di certi gruppi in posizione sempre subordinata costituisce un danno nei loro confronti non perché ne mina la stima di sé, ma in quanto limita il loro effettivo potere di partecipare in modo paritario al momento decisionale. Per salvaguardare l’immagine delle donne, come di altre minoranze (in senso sociologico), ciò che si dovrebbe pretendere sono organi decisionali e di controllo realmente rappresentativi (anche, se necessario, mediante il ricorso alla politica delle quote) e codici etici che sanzionino la diffusione di messaggi che possono ledere particolari gruppi.
Il giovanilismo, le pubblicità ossessionate dalla sessualità e il ricorso alla chirurgia estetica delle donne che ruotano intorno al mondo dello spettacolo sono tutti fenomeni cui dedicare attenzione dal punto di vista sociologico, ma che, secondo Ottonelli, non andrebbero comunque utilizzati – come avviene Nel corpo delle donne della Zanardo – per segnare una sorta di differenza “ontologica” tra donne vere e donne “finte” e inautentiche perché nascoste da una maschera di botox, lifting, ecc. Questo modo di affrontare la questione della rappresentazione del corpo femminile sottintende una forma di disprezzo verso chi non appartiene alla nostra stessa tribù che è tipica di dinamiche razziste, elitiste e antidemocratiche.
Mal poste, secondo Ottonelli, – come già accennavo – sono state anche la questione del lavoro domestico migrante e quella del congedo di paternità obbligatorio. Mi trovo d’accordo sulle critiche mosse a quest’ultima proposta, in particolare per i presupposti e gli argomenti su cui è stata fondata; non condivido, invece, quanto si afferma in relazione al modo in cui la letteratura sociologica rappresenterebbe la delega del lavoro di cura alle donne migranti da parte delle donne occidentali. Vediamo, però, in ordine i due punti.
Il limite più grosso dell’insistenza sul congedo di paternità obbligatorio è che esso è stato presentato come se la questione del lavoro di cura potesse essere risolta semplicemente mediante una sua più equa distribuzione tra i generi, all’interno della famiglia – come se esistesse ancora un unico modello familiare: quello della coppia eterosessuale con figli. Istituzioni attente all’importanza del lavoro di riproduzione sociale dovrebbero pensare a soluzioni che consentano anche a famiglie monoparentali la cura e la crescita di un figlio. Laddove questo accade – come in Islanda – le donne sono più presenti nel mondo del lavoro, sono più libere e non rimandano le loro scelte di maternità – come sempre più spesso accade nel nostro paese.
In assenza di un regime di welfare, in Italia, il lavoro di cura alla persona (non parlo del lavoro domestico in generale, perché sono d’accordo con l’autrice che non sia quest’ultimo a porre un reale problema) è tutto a carico della famiglia, e in particolare del c.d. “migrant in the family model”, ovvero la famiglia coadiuvata dalla lavoratrice di cura migrante. Secondo Valeria Ottonelli, la letteratura sociologica sulle migrazioni femminili e sul mercato del lavoro di cura migrante tende a dare un’immagine distorta del fenomeno, che trasmette un messaggio che suona più o meno così: le donne occidentali dovrebbero sentirsi in colpa e vergognarsi perché sfruttano le donne immigrate, vittime della globalizzazione e della povertà, delegando loro la cura dei loro anziani, dei loro bambini e dei loro cari disabili. Su questo punto dissento dall’autrice. La questione non mi pare stia, nella letteratura, esattamente nei termini in cui lei la pone. C’è un problema effettivo di vulnerabilità allo sfruttamento, anche se si tratta di lavoro pagato, nella misura in cui il mercato di cui stiamo parlando è per lo più ancora sommerso e irregolare e l’offerta di lavoro viene da lavoratrici che, spesso, sono prive di permesso di soggiorno e quindi suscettibili di forme, le più varie, di ricatto. C’è nel nostro paese una situazione preoccupante, soprattutto se si considerano i dati relativi all’accelerazione dell’invecchiamento della popolazione italiana (gli anziani con almeno 75 anni di età rappresentavano circa il 3,9% della popolazione nel 1971, oggi sono 9,6% del totale), costituita da politiche sociali inesistenti (in particolare nell’ambito del long-term care) rispetto alle quali le politiche migratorie, con le varie sanatorie per le badanti, hanno svolto una sorta di funzione di supplenza. Se una responsabilità delle donne (e delle famiglie) italiane c’è, non è quella di aver delegato alle immigrate il loro ruolo tradizionale, e di aver cercato un aiuto e un sostegno nel mercato della cura, ma di non aver lottato abbastanza per un welfare che non si limitasse ad un sostegno meramente monetario (come accade oggi con la misura dell’assegno di accompagnamento, che certamente contribuito alla diffusione del fenomeno delle badanti), ma fornisse un sistema articolato di servizi sociali, sulla base del riconoscimento del diritto di ogni individuo a ricevere e prestare cura, che significa trovare, per tutti, la possibilità di una conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita e assicurare a tutti la libertà di scegliere se prestare cura a una persona cara e in quale misura. In particolare, per le lavoratrici domestiche immigrate implicherebbe poter svolgere il loro lavoro portando con sé i loro figli e i loro cari, se lo desiderano – desiderio che viene scoraggiato oggi dalla difficoltà e dagli ostacoli amministrativi posti al ricongiungimento familiare. Significherebbe sia per le badanti sia per i care-giver familiari non remunerati che seguano un anziano o un disabile 24 ore su 24 non essere lasciati soli e potersi avvalere di una rete territoriale di servizi, di gruppi di sostegno e mutuo-aiuto. La soluzione del mercato del lavoro di cura presenta, infatti, un limite che non sta tanto nella qualità del lavoro stesso e nella sua mercificazione quanto nel fatto che incrementa le disuguaglianze sociali tra coloro che possono e coloro che non hanno le possibilità economiche per accedere alle risorse di cura. Questo è il problema fondamentale sia a livello nazionale che a livello globale derivante dall’assenza di moderne ed adeguate misure di welfare che si facciano carico dei rischi sociali associati alla non autosufficienza; ed è un problema di giustizia.