dal blog di Vania Chiurlotto
Si sa che la parola ‘emancipazione’ non ha mai avuto buona stampa. Impossibile da scandire in una manifestazione, improbabile in uno slogan, imbarazzante nell’etimo che ti rimandava seccamente alla minorità e alla schiavitù, ambigua nelle immagini che evocava oscillanti tra il viriloide e lo spregiudicato, ha sempre richiesto specificazioni e interpretazioni politiche, fino alla sua difficile coniugazione con ‘liberazione’ (e? o? con il trattino? con la sbarretta? Ogni soluzione rimandava a diverse concezioni, pratiche di vita e di lotta politica). Un dibattito ormai datato, e tuttavia non concluso se l’affermazione che mi è capitato di fare in un gruppo di discussione alla prima tappa del XIII congresso dell’Udi, a Firenze, ha suscitato qualche eco e molti fraintendimenti.
Avevo detto – riprendendo peraltro il titolo di una serie di incontri organizzati qualche anno fa dal Centro studi Dwf di Roma nella Sala Anna Maria Mozzoni – che “ormai emancipate si nasce”. Ritengo, mi pare perfino ovvio, che n egli anni ’70 si sia conclusa una lunga stagione politica, e si sia conclusa fruttuosamente.
‘Emancipate si nasce’ vuol dire non soltanto che sono cadute le discriminazioni formali, ma che sono avvenuti grandi spostamenti nella vita delle generazioni femminili. Per richiamarli, mi avvarrò a piene mani dei dati e delle considerazioni che Lorenza Zanuso colloca in appendice alla sua relazione “Gli studi sulla doppia presenza” in La ricerca delle donne, Studi femministi in Italia, a cura di Maria Cristina Marcuzzo e Anna Rossi-Doria, 1987.
“Lungo tutto il secolo- scrive la Zanuso- decrescono i tassi globali di fecondità : la riproduzione esce dagli ‘accadimenti naturali’ e diventa un comportamento sociale (…) è nel corso degli anni ’70 che la fecondità registra un vero e proprio crollo, investendo tutte le classi di età, comprese quelle riproduttive per eccellenza, tra i 20 e i 30 anni (…). Si tratta di un fenomeno senza precedenti storici per entità e rapidità del cambiamento : che intenzioni, che vincoli, che nuove/diverse idee e progetti di sé vi stanno dietro? (…) Sempre a cavallo degli anni ’70, si accelera il trend di accesso dei giovani alla istruzione secondaria, e in misura sempre molto maggiore per le donne che per gli uomini. Lo stesso accade per l’università, così che oggi le studentesse sono circa la metà del totale per tutti i livelli di istruzione. Quel che più ancora importa sottolineare è che, parallelamente a questa nuova presenza di massa di giovani donne nei livelli superiori, le scelte degli indirizzi di studio si sono pressoché invertite rispetto a quelle della generazione precedente. (…) E’, anche questa, una situazione del tutto recente di cui, se non possiamo prevedere gli esiti, vale almeno la pena di sottolineare la novità : per misurarsi con, ed eventualmente smontare la ‘parola’ maschile, bisogna prima conoscerla; e le nuove generazioni la conoscono in massa più di noi. (…) E’ noto che, da circa un quindicennio – e quindi di nuovo a partire dagli anni ’70 – si inverte la tendenza, lunga di un secolo, alla riduzione dei tassi di attività femminili . (…) Ma non cambiano solo i livelli: cambia anche il modello di partecipazione al lavoro delle donne. Per le generazioni più giovani (chi ha oggi meno di 40 anni) la partecipazione al lavoro cresce infatti ininterrottamente al crescere dell’età (del ciclo di vita), senza il periodo di ritiro temporaneo che era tipico della generazione di mezzo (oggi fra i 40 e i 60 anni circa), e al contrario del ritiro progressivo che è stato tipico delle attuali ultrasessantenni. Istruzione, fecondità e partecipazione al lavoro sono tra loro correlati. Il risultato è che, nel corso degli anni ’70, si è formata una generazione di donne che sperimenta condizioni di vita nettamente diverse da quelle della generazione precedente: la ‘casalinga’, che ancora agli inizi degli anni ’70 rappresentava nei fatti e nell’ideologia la figura femminile prevalente è oggi una figura minoritaria tra le donne giovani e adulte (entro i 40 anni); e se questo vale per l’Italia nel suo complesso, è tanto più vero nelle aree più modernizzate. Questi andamenti trovano un ‘contrappeso’ nell’analisi del tipo di lavoro svolto dalle donne. Dalla analisi dei mestieri femminili nel lungo periodo, si ricava infatti l’evidenza di una straordinaria continuità nel tempo della concentrazione femminile in pochissimi e specifici canali occupazionali, che in tutto il secolo hanno assorbito la quasi totalità delle occupate: negli ultimi 80 anni e ancor oggi, 7/8 donne su 10 hanno lavorato in un numero limitatissimo di mestieri femminilizzati. (…) Se è dunque vero che molto è cambiato riguardo ai livelli e ai modi di partecipazione al lavoro delle donne, è altrettanto vero che la divisione sessuale percorre tuttora in modo profondo anche il lavoro per il mercato, e che la semplice partecipazione non è un buon indicatore – e tantomeno un indicatore scorporabile da altri – del grado di maggiore o minore ‘emancipazione’ femminile. Anche qui, è più tra i nessi tra le varie attività svolte dentro e fuori il mercato, e nella loro mutevole combinazione nel tempo storico e biografico, che può essere rintracciato e valorizzato il grado e il senso della ‘presenza’ femminile”.
Non mi scuso, canonicamente, della lunga citazione necessaria per dare un fondamento fattuale a percezioni peraltro diffuse e generalizzate: così diffuse e generalizzate da rendere evidente che il punto in discussione è tutto politico.
Cambiamenti di tali dimensioni e il loro andamento nel tempo ci dicono che certamente la vita delle donne è mutata in un contesto complessivo di modernizzazione, ma altrettanto sicuramente che è stato merito dei movimenti politici delle donne averli in molti casi voluti, determinati, nominati: interpretati cioè in modo tale che non soltanto sono cambiate le condizioni materiali delle donne, ma la concezione che ciascuna donna ha oggi di sé.
Ritengo che negli ultimi quarant’anni l’Udi abbia avuto un ruolo essenziale in questo processo, e che lo possa e lo debba rivendicare orgogliosamente. Tanto più lascia perplesse, allora, la resistenza di molte donne dell’Udi ad accettare i dati di fatto e ad ascriverli come frutto anche del proprio lavoro: significa che è politicamente necessario discutere questo punto.
L’argomentazione più ovvia potrebbe essere – già ci mette in guardia Lorenza Zanuso – che si tratta di un processo di emancipazione assai limitato nelle opportunità e quindi nelle figure sociali che è in grado di esprimere, poco sorretto da politiche istituzionali e quindi pagato a carissimo prezzo di fatiche individuali, ancora non omogeneo quanto ad aree territoriali e a classi sociali e quindi rivelatore di più evidenti disuguaglianze fra donne. Tutto ciò è vero. E c’è di più, se teniamo conto del rischio che Lorenza Zanuso denuncia nella sua relazione: “Il riferimento alla ‘doppia presenza’ femminile viene infatti utilizzato da più parti in modo ormai rituale, non come spazio entro cui ciascun soggetto elabora strategie di vita e produce valori, ma come ennesimo modello normativo; la doppia presenza , cioè, rischia di diventare un modo di dire che interpreta le nuove aspettative di ruolo e stabilisce la norma dell’esistenza femminile in una società modernizzata”.
Ma tutte queste limitazioni si inscrivono, appunto, in un contesto di emancipazione: parziale, faticosa, ambigua, classista, ma emancipazione.
L’ultima, fra queste connotazioni, è certo quella che ferisce di più perché offende sia il senso della solidarietà che quello della giustizia. Rossana Rossanda, nel primo numero di Reti esprime con estrema chiarezza questo punto di vista: “Lasciamo andare se il discorso dell’emancipazione ha veramente fatto parte della politica del partito comunista italiano, cioè è passato, da discorso in linea di principio e da promozione di alcune donne, a proposta di modifica della società tale da condurre le donne all’emancipazione. Tutte. (…) Un partito che si decida a fare del pensato femminile un elemento della ‘sua’ trasformazione ha da essere un partito disposto a volere una trasformazione, e radicale, dell’organizzazione della società; superando d’un colpo i ritardi sull’emancipazione e disponendosi a rimettere in discussione il proprio modello di valori (un passo in questo senso ha fatto la sinistra Spd)”.
L’emancipazione di tutte ha come presupposto una volontà politica di tale qualità – della quale onestamente non si vede traccia; ed è appunto questione delle donne comuniste – nel senso che loro se la sono assunta, non nel senso che non ci riguardi – il compito di bisessualizzare il partito per trasformare la società (o viceversa).
Assumere come prospettiva la conduzione di tutte le donne all’emancipazione implica una concezione della politica, delle sue forme e dei suoi strumenti fortemente incardinata su un progetto di rivoluzione realmente complesso e complessivo, tale da comportare l’impegno di tutte le donne nella trasformazione in primo luogo dello ‘strumento degli strumenti’, cioè di quel partito comunista italiano che anche apparendo largamente al di sotto di tali pretese, resta pur sempre l’unico partito che può almeno essere inchiodato alla sua ragione, alla sua storia, al suo nome.
Riconosco e conosco il fascino di questa posizione, che rimane impraticabile non già,
ovviamente, perché la grande maggioranza delle donne non si pone in questo orizzonte ideologico e politico, ma soprattutto perché il senso del femminismo è stato ed è il porsi delle donne come soggetto, facendo del proprio senso di appartenenza di sesso la misura etica e politica di ogni strategia. Siamo concettualmente al di là del movimento autonomo delle donne che produce un pensato e azioni sociali di cui poi il partito politico fa elemento della sua trasformazione: io credo che le femministe comuniste ne siano ben consapevoli e che da ciò derivi la loro particolare “passione della differenza sessuale”.
Lavorare perché questo soggetto produca l’impensato, cioè la sua propria storia, è lavoro di lunga lena e sicuramente utopico, almeno quanto lo è una rivoluzione che conduca tutte le donne all’emancipazione; difficile quanto bisessualizzare il partito politico, una società, una cultura. Forse nel limite dell’utopia finiscono per essere la stessa cosa, ma non è indifferente, nei tempi storici, la titolarità del processo.
A questa conclusione, cioè al separatismo, è approdata appunto l’Udi con l’XI congresso nel 1982, e quindi le obiezioni che muovono le compagne dell’Udi all’assunto ‘emancipate si nasce’ sono di natura diversa da quelle di Rossana Rossanda. Io credo che abbiano a che fare con due ordini di difficoltà: l’uno è il timore che ne consegua una perdita di senso del movimento politico delle donne, o almeno del suo fare; l’altro che ne consegua la rottura di una solidarietà di sesso che è stata grande componente etica nella denuncia dell’oppressione e nell’individuazione degli strumenti per combatterla.
A me pare, al contrario, che dichiarare conclusa e vinta la stagione dell’emancipazione significhi affermare che il movimento politico delle donne non trae la sua legittimità dall’oppressione (che c’è) ma, per dirla con le donne della Libreria di Milano, dal desiderio di libertà femminile (che c’è): cioè da un punto più alto e più difficile. Omologarci sull’oppressione, per generoso solidarismo, significa non far scendere in campo la pluralità e la complessità delle figure femminili esistenti ma o ridurle a due convenzioni politiche (le militanti e le altre) o costruire una geografia per categorie (le lavoratrici, le studentesse, le intellettuali…) o una tematizzazione asfittica (la maternità, il lavoro…).
Abbiamo voluto l’XI congresso. E’ stato l’ultimo atto di responsabilità di un grosso gruppo dirigente – un congresso di rottura che ha marcato una soluzione di continuità con la vera cultura politica dell’Udi, che era la sua organizzazione, per esprimere, dicevamo, la comunicazione tra donne. Che non è un concetto sentimentale o la fluidificazione delle informazioni interne, ma la necessità di dirci come soggetti concreti e individuali – e non come militanti che hanno dei doveri verso le oppresse – le ragioni della nostra passione politica.
Le concrete donne italiane che siamo abbiamo modi concreti di vivere la nostra emancipazione; concreti profitti e concrete perdite mediazioni aggiustamenti contraddizioni nel nostro agire quotidiano se e quando teniamo fede alla nostra appartenenza di sesso; concreti rapporti con altre donne che scegliamo in base al concreto sostegno che essi danno all’intelligenza della nostra vita e alla possibilità di viverla in coerenza con la concezione che abbiamo del nostro sesso.
Ci si organizza, per vivere. Quali spostamenti concreti sono avvenuti e avvengono nei nostri rapporti affettivi, nei nostri ruoli familiari, nell’uso del nostro tempo e del nostro denaro, nella scelta delle nostre amicizie, quali investimenti o quali sottrazioni nel lavoro, quali ambizioni per noi stesse, quali letture del mondo… Non si tratta di pratica dell’autocoscienza, per la quale non abbiamo più l’innocenza, se mai l’abbiamo avuta, ma della capacità di concettualizzare, di restituire a dimensione politica l’intera complessità della nostra vita: senza di che la titolarità del soggetto politico collettivo rimane una rendita e il fantasma di un luogo simbolico.
Abbiamo necessità di mettere in circolazione tutto questo dentro l’Udi, poiché la tenacia con la quale continuiamo a rimanerci dice che là non è solo la memoria, ma l’attualità delle nostre relazioni che ancora non trovano nome e significato. C’è stata per sei anni, dall’ultimo congresso, non solo una sorta di irriducibilità dell’Udi, ma una irriducibilità dentro l’Udi che ha impedito da un lato l’espressione e l’interpretazione politica delle nostre vite, dall’altro la più facile deriva verso forme di ricostituzione della “organizzazione nazionale”: ma è stato anche uno spazio mantenuto aperto alla possibilità, una chiamata in causa di ciascun gruppo dell’Udi e di altri gruppi di donne che hanno simile storia politica perché nessuno potesse rimuovere l’interrogativo su quale sia la reale e non formale “organizzazione” capace di dare un senso alle diverse progettualità, perché altre donne vi si riconoscano e le agiscano in libertà. Mantenere questo spazio ha significato modificare in radice la forma stessa dell’Udi, che non aveva mai consentito non tanto il formarsi di ‘minoranze’ – che è concetto improprio e poco significativo – ma la personale responsabilità di essere Udi.
Quelle che nascono emancipate, e che per ciò stesso non lo sanno, non saranno sedotte dalla nobiltà delle cicatrici di quelle emancipate che siamo, ma dall’attualità dei soggetti che sappiamo essere, dalla qualità delle relazioni che sappiamo stabilire fra noi, dai conflitti che apriamo e ai quali diamo un nome.
Se l’espressione “gestire politicamente posizioni incomponibili” ha un senso, esso è tutto qui. Altrimenti continuiamo a baloccarci con la “contrattualità politica” o con “l’orizzonte della differenza sessuale”: continueremo a mimare l’Udi che siamo state o la Libreria delle donne di Milano, che non siamo.
Vania Chiurlotto
letto o scritto probabilmente nel 1988 in un convegno dell’Udi.