Contributo al XV Congresso Udi, ottobre 2011
Angela Lamboglia, Claudia Bruno
Una premessa
Muovendoci sul terreno della sessualità e della salute delle donne, ci piacerebbe riuscire a tenere insieme due dimensioni: una è quella dei diritti e dell’autodeterminazione, quindi ciò che riguarda l’informazione sulla contraccezione, l’accesso all’aborto, farmacologico o chirurgico, ma non solo; l’altra è quella della costruzione dell’immaginario, della conoscenza del proprio corpo e della libertà
del desiderio.
I due piani non possono essere scollegati. Ci siamo rese conto, lavorando sulla sessualità per gli ultimi due numeri di DWF usciti quest’anno, Questo sesso che non è il sesso 1 e 2, che le conquiste sul piano dei diritti si svuotano di reale libertà se slegate dai percorsi politici che le hanno rese possibili e se non sono rivitalizzate da un lavoro politico nel presente.
Laura e Ileana stanno già lavorando sul primo fronte, noi ci limitiamo a mettere in comune i dati dell’ultima relazione sullo stato di attuazione della legge 194/1978 elaborata dal Ministero della Salute, da cui ricaviamo alcune indicazioni rispetto alle questioni su cui è più urgente lavorare.
I dati provvisori relativi al 2010 segnalano una costante diminuzione delle interruzioni di gravidanza, con un decremento del 2.7% rispetto al 2009 e un decremento del 50.9% rispetto al 1982. Si conferma il minore ricorso all’aborto tra le giovani in Italia rispetto a quanto registrato negli altri Paesi dell’Europa occidentale, mentre è andato crescendo il contributo all’IVG da parte delle donne con cittadinanza estera.
Questo è un primo punto. Di quali strumenti e di quali conoscenze dispongono le donne immigrate a quali servizi si rivolgono, quali ostacoli incontrano?
Quante strutture favoriscono l’accesso delle donne migranti, anche quando non in possesso di regolare permesso di soggiorno?
Quanto siano decisive la sensibilità e la formazione delle operatrici si intuisce bene dal lavoro di Doriana e Lucrezia ed è emerso anche nel primo numero di DWF in relazione all’evoluzione dei consultori.
A questo proposito, la relazione del ministero ci dice che il ricorso alConsultorio Familiare per la documentazione/certificazione, specialmente al Sud e nelle Isole, risulta sempre basso, anche se in aumento, in gran parte per il maggior ricorso ad esso da parte delle donne straniere.
E’ un dato che corrisponde a quanto sperimentiamo nelle nostre vite – molte di noi non si rivolgono al consultorio, ma a ginecologhe private – e al racconto delle stesse operatrici che nell’intervento su DWF lamentano la riduzione di queste strutture da percorsi di presa di coscienza a meri servizi e delle donne coinvolte in, rispettivamente, mere esecutrici e mere fruitrici di quei servizi.
Gerarchie, burocratizzazione, carenza di risorse spiegano in parte questo deperimento della funzione originaria dei consultori. La loro debolezza, però, ha anche a che fare con un processo più ampio di atomizzazione e isolamento per cui i consultori non sono integrati nel tessuto territoriale e sociale e finiscono per essere per le donne luoghi cui ricorrere solo in casi di emergenza. Questo ha un’importanza decisiva rispetto alla questione di come tradurre le esperienze di ciascuna da faccende private in vicende socializzabili con le altre e di come riportare la concretezza dei corpi al centro dei nostri discorsi e delle pratiche sulla e della sessualità.
Da ultimo, tornando, e concludendo così questa premessa, sui dati del ministero, nel 2009 si registra una stabilizzazione generale dell’obiezione di coscienza tra i ginecologi e gli anestesisti, dopo un notevole aumento negli ultimi anni. Siamo comunque a livello nazionale, per i ginecologi, a oltre il 70.7%; per gli anestesisti al 51.7%. Per il personale non medico si è osservato un ulteriore incremento, fino al 44.4% nel 2009. Percentuali superiori all’80% tra i ginecologi si osservano principalmente al Sud.
E questo è il terzo punto. Come esigere che l’obiezione di coscienza non ostacoli il rispetto della legge e come vincolare le strutture a garantire le prestazioni?
L’esperienza con DWF: Questo sesso che non è il sesso 1 e 2
Al centro dei due numeri sulla sessualità che abbiamo curato abbiamo posto soprattutto gli aspetti relativi alla costruzione dell’immaginario, conoscenza del proprio corpo e trasmissione dei saperi sul corpo, medicalizzazione e libertà del desiderio.
Ci siamo rese conto di come convivano dinamiche contraddittorie. Da una parte c’è una sensazione di libertà diffusa, accesso relativamente semplice alla contraccezione, rapporti di dialogo con i/le partner; dall’altra donne più o meno giovani rivelano di avere una conoscenza superficiale del proprio corpo, di non avere occasioni di confronto con altre sulle proprie esperienze, tra coetanee ma anche con donne di generazioni precedenti e in famiglia.
Noi stesse siamo arrivate ad interrogarci sulla sessualità consapevoli del fatto che si tratta di una dimensione che va sotto silenzio nelle nostre vite, nonostante la pratica politica tra donne.
L’impressione è che ci sia una parola femminile sulla sessualità andata sotto traccia, forse abbandonata troppo presto dal femminismo, un po’ per l’attenzione crescente verso la politica del simbolico, un po’ per uno schiacciamento sui temi di cui sopra, quelli connessi alla salute, alla medicalizzazione, alla maternità e all’aborto.
Eppure, ci sembra, senza un confronto vivo che passi per conoscenze, esperienze, saperi del corpo, non è solo la possibilità di riconoscere la reale libertà del nostro desiderio che viene a mancare, ma anche la possibilità di un confronto attivo con le tematiche della salute.
Il nostro desiderio: da corpi medicalizzati a corpi abitati
La cultura diffusa sui corpi è una cultura altamente tecnicistica e meccanicistica che tende a separare e dividere – corpo e mente, parti del corpo da altre parti del corpo, paziente da medico, dolore da piacere, prevenzione da cura, casa da ospedale, vita da morte, benessere da malattia, saperi autorevoli da tradizioni popolari – e soprattutto che non tiene conto della dimensione sessuata dei corpi.
Dall’esperienza di quali corpi viene questa cultura? Ci chiediamo.
Tra noi, Claudia ha lavorato sul concetto di medicalizzazione a partire anche dal confronto con altre sull’esperienza mestruale, rintracciando sotto pratiche date per scontate – in primis il ricorso alla pillola per la regolarizzazione e per sopportare i dolori del ciclo mestruale – il rapporto che ciascuna intrattiene con il proprio corpo, le esperienze di straniamento dal corpo che alcune hanno sperimentato con l’uso prolungato della pillola, i rischi di delega – al farmaco, come ai medici – e di adeguamento ad un modello di disponibilità permanente, al sesso maschile, ma anche al sistema della produttività a tutti i costi.
Che ne è stato della portata del movimento della salute delle donne? Ci chiediamo poi.
Dal tempo in cui le donne individuavano una gravidanza in base alla percezione di un “movimento sotto al cuore” a quello dei test e delle ecografie ad ultrasuoni, sono successe un sacco di cose. Ma dopo l’espropriazione dei saperi sul corpo da parte dell’apparato medico-scientifico, c’è stato anche un forte e potente lavoro politico praticato dalle donne per la salute delle donne. Un lavoro che è stato molto proficuo anche in Italia negli anni ‘70, come racconta bene Luciana Percovich, e che è stato complesso e variegato. Dai gruppi di self helpricalcati sul modello americano, ai consultori autogestiti, agli incontri di autocoscienza.
Quello per la salute delle donne è stato un vero e proprio movimento che ha lavorato sodo per scardinare i capisaldi dell’immaginario promosso dal discorso medico-scientifico patriarcale sui corpi. Dopo però, si è interrotto qualcosa. Il discorso delle donne impegnate sui temi della salute si è spostato dai corpi alla scienza, dalla pratica in presenza all’accademia, con la critica della neutralità e dell’oggettività scientifica e la scoperta della parzialità come valore irrinunciabile, l’esperienza dei corpi in relazione tra donne ha subìto una battuta d’arresto.
Come ci hanno raccontato in DWF anche le attiviste dell’Assemblea delle Donne Roma Nord, da luoghi di partecipazione e trasmissione di un sapere sui corpi delle donne, i consultori sono diventati parte integrante dell’istituzione medica e della sua cultura gerarchica e neutra, per di più marginalizzati all’interno di questa come luoghi a cui ricorrere solo in casi di “emergenza”. Ci chiediamo in che modo questo sia potuto accadere.
Più in generale ci sembra che la parola femminista sulla sessualità abbia avuto un andamento carsico.
L’intermittenza nella trasmissione, affidata a rapporti di prossimità troppo spesso frutto di incontri fortuiti, si traducono in difficoltà di ricavare una consapevolezza piena di quanto le donne hanno compreso e condiviso sulla sessualità, da cui discendono esperienze solitarie – di confronto col corpo, con i suoi fluidi, con la sua fertilità, con la masturbazione, con le aspettative sociali e i modelli normativi – e strade di ritrovamento di sé che non comunicano con quelle delle altre.
L’urgenza per noi è quindi prima di tutto riprendere parola sulla sessualità, a cominciare dalla materialità delle nostre esperienze, rimettere al centro non solo contraccezione, maternità, aborto, ma i nostri corpi nella loro interezza, la possibilità di saperli abitare e non di subirli come un fardello, restituendo alla sessualità da una parte il senso di “dimensione erotica ed erotizzante” che va oltre il rapporto sessuale perché ci inserisce nello scenario delle relazioni e del nostro stare al mondo; dall’altra lo spazio per la “cura di sé” come nuova e più estesa istanza di autodeterminazione.
Come si fa allora a tenere fede a quell’impegno di stare a delle pratiche che riaprano la discussione sull’esperienza concreta lasciando anche spazio a nuovi scenari possibili, non più appiattiti su discorsi e modelli normativi, ma ancorati al reale, e insieme a lavorare sul piano dei diritti?
Proposta: estendere il concetto di autodeterminazione a un’altra cultura dei corpi
La proposta è di lavorare sulla riappropriazione dei saperi e delle pratiche sui corpi a più livelli, con l’obiettivo di promuovere una cultura dei corpi che non separa ma ‘tiene in relazione’ (le parti del corpo, il piacere e il dolore, la mente e il corpo, la prevenzione e la cura di sé, l’esperienza di una da quella di un’altra, ecc.) consentendo quindi ad ogni donna, e mai da sola, di vivere il proprio corpo come soggetto attivo e non come destino da subire.
Il primo passo necessario ci sembra quello di ricostruire – attraverso quello che è stato detto, pensato ed esperito dalle donne – una critica al sistema sanitario e medico e alla cultura dei corpi che diffonde e autorizza, a tutti i suoi livelli (visita ginecologica, prevenzione, mestruazioni, contraccezione, aborto, comunicazione dei rischi, gravidanza, parto, cesarei, allattamento artificiale, menopausa).
C’è un’immagine che forse più di altre incarna il passaggio, nell’immaginario collettivo, alla cultura medicalizzata dei corpi, ed è il ritratto di una donna distesa sul lettino che con la testa girata e protesa verso il monitor apprende l’interno del suo utero dall’esterno. Sdraiata, in posizione passiva, la protagonista dell’immagine in questione mette a tacere, e diventa sorda rispetto a, il suo sapere il corpo. L’unica autorità riconosciuta, e quindi esistente, è quella che fa capo a un sapere situato fuori di sé e mediato dalla tecnica. Da questa immagine di delega vogliamo ripartire per rompere e sovvertire l’ordine delle cose.
L’esigenza successiva è proprio quella di individuare operatrici e reti di donne interessate a muoversi verso la generazione comune di una cultura dei corpi capace di andare oltre la ipermedicalizzazione e verso una valorizzazione della partecipazione, della ‘relazione’ e dello scambio di pratiche a tutti i livelli per l’elaborazione collettiva di una soggettività incarnata.
Prendiamo ad esempio l’esperienza mestruale: sono in corso già diversi tentativi di aggirare il modello dominante del tampone ‘usa e getta’ affiancato a pillole che riducono la percezione di ciò che durante il ciclo mestruale accade dentro di noi. È possibile che ogni donna che voglia viversi l’esperienza mestruale in maniera diversa si ritrovi isolata?
Il fatto che il mercato stia trovando modi per rispondere all’esigenza di cambiamento, come è nel caso della mooncup – la coppetta mestruale che raccoglie e non assorbe, basata sul riuso anziché sulla produzione di rifiuti – non risolve l’assenza di scambio di pratiche.
Se qualcosa non succede per connettere le esperienze, ogni donna proverà a cambiare il corso della storia del suo corpo in solitudine, chiusa in un bagno privato con un manuale delle istruzioni in mano, senza la possibilità di confrontarsi con altre.
Ci chiediamo: è possibile, per fare questo, ripassare dai consultori?
Un luogo da cui partire: la sala parto
Nel nostro percorso di ricerca, abbiamo incontrato un’ostetrica, Gabriella Pacini dell’Associazione onlus romana Vita di Donna, con la quale abbiamo avuto modo di confrontarci e discutere in merito a vari aspetti della sessualità. Uno tra questi ci è sembrato più significativo nell’evidenziare il conflitto tra culture dei corpi: il parto.
Partorire oggi, per la maggior parte delle donne in Italia significa affidarsi e delegare in modo totalizzante l’esperienza del dare la vita all’istituzione medica, con tutte le storture che questo processo di delega comporta. Il modello medicalizzato di parto ci parla di un percorso passivo che vede il suo apice simbolico nel luogo dove questo evento avviene, la sala parto ospedaliera.
Qui, una donna, sdraiata sul lettino, in una posizione impostale come l’unica possibile, ginecologi e ostetriche collaborano a un rituale all’interno del quale la partoriente ha un ruolo decisamente passivo e oggettivato, a cui viene letteralmente sottratta forza fisica e psicologica. Il soggetto dell’evento-parto sembra essere piuttosto il medico: lui è più comodo, lui decide tempi e ritmi dell’evento in base alle proprie esigenze e interessi (es. epidurale, induzione del parto e cesarei).
In questo contesto una donna non può decidere dove partorirà, né in quale posizione. A questo si aggiunge spesso l’induzione della necessità di alcune pratiche evitabili come l’epidurale, il cesareo e l’episiotomia (il taglio del perineo durante il parto, a detta delle ostetriche più una prassi che un’esigenza, e che assume quindi le fattezze di una vera e propria mutilazione genitale), la proibizione dell’allattamento al seno.
Ci chiediamo: com’è possibile che una donna non abbia diritto a decidere in quale posizione partorire all’interno dell’istituzione ospedaliera? Com’è possibile che la maggior parte delle donne non prenda neanche in considerazione l’opzione del parto domestico credendolo illegale o eccessivamente rischioso?
Esistono ostetriche che praticano parti in casa e case del parto attivo, anche in Italia, nate per promuovere una cultura del parto che veda la donna come soggetto libero di autodeterminarsi. È possibile mettere in rete queste istanze e renderle accessibili a tutte le donne per costruire insieme un’alternativa al sistema dominante che parta dalla messa in comune di saperi e pratiche, e allo stesso tempo non cedere alla deriva privatista che fa leva sull’equivalenza che il sistema sanitario vigente funziona male perché è pubblico e tende ad atomizzare ed isolare le esperienze?
Consegniamo con fiducia questi interrogativi all’Udi, che negli anni ha dimostrato di saper condurre importanti campagne sul territorio nazionale, con risultati concreti di cambiamento nella società, auspicando che la messa in parola di queste urgenze sia solo un primo passo verso un lavoro da condurre insieme nei prossimi mesi.
Dall’incontro con l’Udi abbiamo appreso che si può partire da un aspetto, da una battaglia, da una campagna, per unire le forze, accrescere consapevolezza di ciò che vogliamo e della nostra forza e mettere in discussione più di quanto messo inizialmente a tema.
Lavorare per liberare il parto dalla medicalizzazione forzata significa infatti, da una parte incidere su un aspetto concreto del nostro stare al mondo, intervenire per cambiare un’esperienza specifica di perdita dei saperi del corpo, per interrompere un’oggettivazione che si ripete, ma significa anche creare un’occasione per riprendere a dire della sessualità in tutti i suoi aspetti, della salute e dei corpi a partire da noi stesse, per recuperare dalla nostra storia ciò che altre donne hanno praticato e insieme individuare nuove esigenze e domande.