Nelle scuole che conosco negli ultimi anni c’è stato un clima difficile ed è cresciuto un profondo malessere. Nei fatti abbiamo assistito a una produzione ipertrofica di norme che spesso stridevano con i convincimenti di base di un/una insegnante e stravolgevano il senso della scuola, riducendolo a merce. C’è stata sì resistenza, soprattutto da parte delle maestre, ma qualcosa di sostanziale ha rischiato e rischia di andare perso. Eppure io so che, anche quando tutto sembra perso, tutto può ricominciare a mettersi in moto. Lo so per esperienza. Sono una di quelle che più di venti anni fa, in percorsi di sole donne, cominciò a scuola un agire politico centrato sulla soggettività. In quel caso – e fu decisivo – capitò una repentina presa di coscienza. Da allora attribuisco una grande importanza alla svolta che induce una presa di coscienza e alle possibilità che apre. Il risveglio della coscienza avviene di colpo e scombina tutti i giochi: fa sì che quello che fino ad un attimo prima si vedeva in un modo, un attimo dopo si vede con altri occhi. Quindi penso che anche oggi si possa ripartire da lì: l’energia umana è sempre capace di rigenerarsi, come la lingua materna che è sempre pronta a rifiorire e aprirsi a nuovi significati.
Se ripenso alla mia esperienza degli ultimi due decenni, nella Pedagogia della differenza e nel movimento di autoriforma, mi accorgo che c’è già parecchio sapere accumulato da rigiocare oggi. Può contribuire a ripensare la scuola nelle contraddizioni del presente, come insegnanti, in un momento in cui si riaprono spazi di elaborazione. Sono idee e pratiche che eccedono sia il vecchio modello della trasmissione unilaterale delle conoscenze, di cui Guido Armellini ha scritto spesso, sia il “nuovo”, ben analizzato dalla Mastrocola in “La scuola raccontata al mio cane”. Per questo voglio riproporne alcune che sento decisive nei nostri percorsi:
1) Prendere coscienza della differenza. Ci ha riportato immediatamente al fatto che siamo incarnati: donne e uomini, bambini e bambine, con storie, vite, esperienze. Ciascuno/a differente e in parte inconoscibile: per questo abbiamo sostenuto che ciò che ci serve di più a scuola è la curiosità nei confronti degli esseri umani. Una conseguenza di questa posizione è aver messo in discussione una disposizione mentale, profondamente iscritta nella nostra cultura, che lavora nella mente a nostra insaputa: pensare per modelli. Vandana Shiva la chiama “monocultura della mente”, mostrando come il pensiero occidentale proceda creando un modello attraverso il disprezzo di ciò che è difforme. Ciò che è difforme diventa inferiore. È capitato nei confronti delle donne, capita nei confronti delle altre culture come ci rimprovera Vandana Shiva. Molte procedure richieste a scuola presuppongono un modello astratto di allievo, quello che a una determinate età, a un determinato punto del programma, deve saper dare determinate prestazioni, e finiamo per essere prigionieri di questo modello finché non ne prendiamo coscienza. A volte finiamo anche nell’accanimento, e non riusciamo più a vedere le qualità degli esseri umani che abbiamo davanti. Un esempio lampante è la valutazione scolastica nel suo proporsi come oggettiva e classificatoria: si definisce un modello ideale di studente, e poi si guardano i ragazzi che abbiamo davanti giudicandoli solo per quanto si avvicinano al modello. Ciò che ci rende più uguali viene preso in considerazione, non la diversità e la varietà che fanno la bellezza del nostro mondo.
2) Prendere coscienza del nostro movente profondo, di ciò che ci ha fatto scegliere questo mestiere, non facile, mal pagato eppure denso di soddisfazioni. Per me la spinta ad andare a scuola tutti i giorni è l’appassionamento all’altro: mi ha sempre incantato il momento in cui una giovane mente prende il volo. In quei momenti si crea silenzio, e anche le classi più confusionarie capiscono che sta capitando qualcosa che dà senso al nostro esserci lì tutti i giorni, in un luogo il più delle volte noioso, irritante. È una forma di amore. È una forma relazionale di dialogo con l’altro e con il sapere. Per un’insegnante è un movente profondo e quasi indicibile. Fa parte di quell’ordine di cose che sono e basta. Anche da un’indagine Istat di alcuni anni fa emergeva nelle scuole un’idea di soddisfazione non legata ai criteri che oggi sembrano dominanti come la carriera, il denaro, il successo, bensì a elementi squisitamente umani come la relazione con studenti e studentesse: emergeva la passione per l’incontro con le persone giovani. Ed era espresso più dalle donne, che oggi sono nella scuola la stragrande maggioranza.
3) Prendere coscienza che viviamo in un’epoca che ci spossessa della nostra capacità di insegnare, essendo diventata appannaggio di specialisti esterni alla scuola. Ivan Illich già molti anni fa ha svelato questo modo di funzionare delle nostre società: per essere quello che sei, padre, madre, insegnante eccetera, devi ricevere un’apposita formazione. Sotto quel meccanismo c’è un paradigma di incapacità a essere: l’esperienza diventa inessenziale e le tecniche sostituiscono l’interrogazione dell’esperienza viva e la modificazione dei soggetti coinvolti.
Una delle idee di fondo dell’autoriforma è invece che il sapere nasce dall’esperienza, umana e professionale, nel confronto diretto con le nuove generazioni. Abbiamo lavorato per farla irrompere, intrecciandola creativamente con il sapere. Questo sbilanciamento può a mio modo di vedere contrastare l’idea di una scuola basata su una ragione puramente utilitaristica, centrata sull’acquisire competenze da spendere immediatamente sul mercato del lavoro; e camminare con l’idea che la scuola ha una ragione in sé, per coltivare il vivere civile, per umanizzare la nostra umanità tramite la cultura, per favorire la convivenza umana.
4) Prendere coscienza che siamo all’interno di una crisi profonda del patrimonio culturale. La Mastrocola ne parla come “trasmissione interrotta”, cioè – lei dice – alle nuove generazioni non passa più niente. Capisco bene che può suscitare sconcerto e disperazione accorgersi di vivere in una crisi che tocca le radici stesse della nostra cultura. Ma può anche essere visto come allentamento di vincoli non più necessari e apertura di spazi di libertà. A mio modo di vedere si può farne un’occasione di cui approfittare, perché proprio in questa situazione di distanza con le nuove generazioni si apre la strada per “umanizzare” il sapere, si apre la possibilità di stabilire un tramite soggettivo, quando la cultura in qualche modo riesce a toccare la vita di ragazzi e ragazze. In questa trasformazione molto si può imparare dall’approccio al sapere che hanno le maestre: lo mantengono intrecciato con le emozioni, come emerge dal libro di Cristina Mecenero Voci maestre, edito dalla Junior.
5) Prendere coscienza che solo una piccola parte nella vita umana è governata dall’economia e che c’è tutto il resto: la vita stessa. In ogni essere umano ci sono bisogni e dimensioni che non rientrano nell’ordine economico, per cui forse funziona l’agire sistematico e razionale, sono di altro ordine. Per me è imprescindibile il bisogno di esistenza simbolica, cioè un esserci nel mondo, per sé e per gli altri attraverso una lingua che rimane in contatto con ciò che si vive e si patisce. Ho insegnato solo in scuole di periferia piene di problemi e nessuno/a si è mai sottratto a questa offerta. Riaprire una scommessa sulla lingua è l’ultimo lavoro che noi dell’autoriforma abbiamo portato avanti assieme ad amiche della Società delle letterate, prima in un convegno e poi in un libro dal titolo “Lingua bene comune” uscito da poco con Città aperta. Abbiamo incominciato a rinterrogarci per fare uno spostamento e riproporre la possibilità politica di un accesso alla lingua e alla cultura sia come lotta contro l’esclusione, sia come liberazione degli “inclusi” dalle gabbie della nostra epoca.
6) L’ultima questione si riferisce al ripensamento dell’orizzonte in cui collocare la scuola. Forse non è più rinviabile prendere coscienza che in occidente viviamo in tempi che risultano debilitanti e regressivi, se cogliamo fino in fondo il loro carattere: una corsa accelerata, sempre in avanti, in una concezione di sviluppo illimitato. Il troppo ci travolge. La scuola è inserita in questi processi per cui fenomeni positivi della modernità si trasformano in negativi e generano impotenza. Già nel ’73 Ivan Illich nella “Convivialità” analizzava come l’istruzione stesse producendo “intossicazione” e finiva per formare buoni consumatori e buoni utenti che, “anziché fare le cose da se stessi, preferiscono riceverle belle e pronte dall’istituzione”.
Oggi attraverso queste riflessioni critiche si sta cercando di aprire altre direzioni per esplorare e immaginare le possibilità di optare per il meno. Le mie considerazioni vanno nel senso di provare a sceglierlo.
Ho riletto da poco la Prima Ghinea e Virginia Woolf già nel 1938 aveva in mente un’istruzione costruita su basi diverse quando parla del “college povero”. In esso si dovranno insegnare
“solo le arti che si possono insegnare con poca spesa e che possono essere esercitate da gente povera… E l’arte dei rapporti umani: l’arte di comprendere la vita e la mente degli altri”.Il college povero dovrà
“inventarsi dei modi per far lavorare assieme la mente e il corpo; scoprire da quali nuove combinazioni possano nascere unità che rendono buona la vita umana. E gli insegnanti saranno scelti tra coloro che sono bravi a vivere oltre che a pensare”.
Optare per il meno per me significa riconsiderare il senso delle cose che facciamo per ritornare su quelle essenziali, e farne decadere altre, ispirandosi a un pensiero disordinante come è quello delle donne o di uomini, come Illich o don Milani, che hanno intrattenuto un rapporto libero con la realtà.