Che cosa intende Brown con politica fuori dalla storia? Ma soprattutto fuori da quale storia?
In un momento di profondo disorientamento politico, come sembra essere quello in cui viviamo, dove le nostre vite sembrano rimanere ancorate alle narrazioni della modernità e del liberalismo, Wendy Brown prova a riconsiderare i concetti e le credenze che tengono in piedi l’ordine politico che quelle stesse narrazioni portano con sé. In un’era in cui la storia sembra essersi conclusa, l’attaccamento ad identità determinate, via via radicate nelle credenze e nelle convinzioni che dal mondo moderno giungono fino al presente e che, a loro volta, vengono normalizzate da operazioni di potere che le mantengono attive senza mai superarne le differenze, sfocia allora in una risposta malinconica per una storia ormai perduta, insieme ai suoi valori, che non considera mai la possibilità di una alternativa a ciò che è stato destabilizzato.
La nostalgia per una storia conclusa ricade necessariamente in un moralismo che si propone come unica verità assoluta: «non elaborare il lutto» scrive l’autrice «moralizza».
L’unica verità possibile allora si traduce nella sola strada da percorrere, unico futuro prevedibile che disapprova ogni fuoriuscita da un determinato tipo di percorso storico.
Un futuro che non sia fuori da una concezione di storia tipica della modernità, che si dirige verso una direzione che è in continuo progresso, è quel futuro da cui, secondo Brown, né la sinistra né i liberali riescono ad allontanarsi, per cui il ricorso nostalgico a concetti come quello di Stato o di sovranità diviene sempre più ricorrente, sebbene ormai inadeguato.
In La politica fuori dalla storia l’autrice suggerisce come certi concetti, da cui sembra impossibile staccarsi, si siano trasformati ormai in «feticci» veicolati da narrazioni politico-culturali apparentemente ancora valide, che portano con sé dispositivi di produzione e riproduzione di un potere che si inserisce nelle maglie della storia senza mai essere eliminato, creando sia soggetti che le loro discriminazioni e rivendicazioni.
Questo vuol dire, infatti, che anche chi rivendica una condizione di oppressione spesso riproduce quel potere a cui dovrebbe naturalmente opporsi, in quanto diventa parte integrante di un meccanismo di potere che produce non solo i suoi oggetti ma anche e soprattutto i suoi soggetti: le “vittime” del potere diventano anch’esse agenti attivi del sistema.
In questo quadro di produzione e riproduzione del potere viene affrontata la questione del desiderio di libertà insita nella natura umana, smentendo, con il ricorso alle teorie psicanalitiche, l’idea che il desiderio di libertà guidi necessariamente l’agire umano. Nella sua analisi Brown, infatti, rimette in dubbio tale concezione e lo fa prendendo in considerazione quelle pulsioni masochiste proprie di chi trova piacere nell’essere punito o nel sottomettersi all’altro, o tenendo conto, ancora, del bisogno rassicurante di identità e di riconoscimento che si prova verso il gruppo a cui si appartiene. Vittimizzazione e senso di colpa vengono chiamati in causa come ostacoli alla trasformazione positiva verso un presente liberato dalle credenze agganciate ad un passato incastrato nelle trame del potere.
La libertà è altro rispetto agli effetti del potere e, scrive Brown, «in quanto desiderio o in quanto pratica non si trova in nessuno di questi luoghi».
Seguendo il ragionamento sul piano politico, dunque, se una politica democratica è una politica libera da ogni convinzione e da ogni norma universale, prendere atto delle discontinuità e delle fratture del presente nella costruzione storica, per svelare un presente che non sia inevitabile e dettato dalle linee della storia precedente ma modificabile dall’azione politica, potrebbe rivelarsi una via per raggiungere una democratizzazione più reale.
Se infatti il discorso del potere, proprio attraverso la sua normalizzazione, mantiene intatto l’ordine delle cose e lo Stato, la politica diviene, in termini foucaultiani, strumento attraverso cui è possibile svelare il potere nella sua presunzione di verità unica all’interno di ogni forma di egemonia sociale, culturale o economica, liberando così il presente da quelle convinzione che lo rendono schiavo di un potere che si rigenera senza sosta.
In questi termini, nel tentare una riconciliazione tra Marx e Foucault, Brown rintraccia nel pensiero marxiano un tentativo di comprensione del potere nella società capitalistica, attraverso la riconsiderazione delle logiche di potere presenti in quelle stesse teorie: è il potere che produce posizioni sociali e non il contrario. É il potere «onnipresente» che produce soggetti.
In questa prospettiva riaprire il futuro come possibilità significa riesaminare il rapporto che il passato intrattiene con il presente e cogliere, come Derrida insegna, le sue tracce nel presente senza invocarlo come presenza strutturante.
La genealogia in questo si configura come modalità attraverso cui decostruire identità.
«La genealogia deve tormentare la politica democratica così come lo Stato deve essere tormentato da una resistenza se si vogliono evitare le derive in cui la democrazia ricade»scrive la stessa Brown. La possibilità di intervenire nel presente rimane dunque sempre aperta.
Attraverso il ricorso a Derrida, ma anche alle teorie di Benjamin, che l’autrice mette in atto, non si propone una nuova concezione di storia che sostituisca quella criticata, ma si vuole creare una nuova consapevolezza politica che resista al potere vincolante del passato e che si faccia mezzo della pratica della libertà.
Per fare questo è necessario rinunciare alle convinzioni ed «elaborare il lutto». La politica, nel suo essere liberatrice, rimane fuori dalle logiche di potere che si producono e riproducono continuamente, cioè fuori dalla storia.
Wendy Brown insegna Scienza politica a Berkeley, Università della California. I suoi studi vertono in particolar modo sulle analisi di questioni come il potere politico, la cittadinanza, l’identità attraverso l’intreccio del pensiero di Marx, di Nietzsche, di Weber, di Freud, di Foucault e degli studiosi della Scuola di Francoforte. Le sue ricerche più recenti si concentrano sulla sovranità e sul neoliberismo.