We are all clitoridian women. Dossier su Carla Lonzi, “Studi Culturali”, n. 1/2015

di Anna Simone

Per chi non può fare a meno di pensare Carla Lonzi come il punto, lo snodo, la parola da cui partire per risignificare ogni volta il femminismo come pensiero e pratica dell’esperienza, il “tornare” ai suoi testi equivale quasi sempre ad un “andare”, ogni volta diverso. E’ infatti impossibile pensarla dentro un “canone”, tanto quanto è impossibile ridurre il desiderio a parola definitiva e dogmatica, a negazione o rimozione del sé e del mondo nel quale la nostra singolarità agisce, lavora, pensa e ama. Se dovessi racchiudere in una parola-baule, come farebbe Alice nel Paese delle Meraviglie, questo bellissimo dossier su Carla Lonzi, appena pubblicato nell’ultimo numero della rivista “Studi Culturali” (We are all clitoridian women, a cura di Giovanna Zapperi, n. 1/2015, Il Mulino) direi che il filo conduttore degli articoli contenuti si posiziona su un crinale che “dis-facendo” rigenera, andandosi a collocare su un filo conduttore molto interessante, quello dell’arte, del femminismo e della politica come “creatività”.

La prima mossa del dossier, di cui dà conto Giovanna Zapperi nell’introduzione è molto chiara. Carla Lonzi non è scissa, non ci sono due donne e neppure due tempi, un prima significato dal mestiere di critica d’arte e un dopo significato dalla militanza nel femminismo della differenza, ma una vita mossa dal desiderio di risignificare continuamente il rapporto che intercorre tra arte e vita andando a fare della vita stessa, per parafrasare il titolo del bel libro di Maria Luisa Boccia –assai presente anche nel dossier- un’opera. Un percorso davvero interessante anche e soprattutto perché non viene dal sapere politico o dal sapere filosofico o sociologico, bensì direttamente dal sapere dell’arte cioè da un sapere che, in sé, dovrebbe muoversi a partire dalla vita, dunque –come direbbe Carla- da un muoversi su un altro piano.

Ad aprire il dossier, subito dopo l’introduzione, v’è il bel saggio di Claire Fontaine, un’artista che ha saputo mettere in “opera” la vita di Carla. I ritorni per chi legge sono già pensiero femminista: inciampare nelle parole è sempre pensiero ovvero gesto trasformativo; la ricerca dell’autentico è sempre scandalo dunque irruenza del soggetto imprevisto, del desiderio;  il blocco va forzato una ad una;  la grande contraddizione tra bisogno di amare l’altro o l’altra da sé e il bisogno di autonomia. Ma c’è anche del nuovo. Per Claire Fontaine, ad esempio, ripensare la sottrazione ai dispositivi del patriarcato collegando sempre il sé al mondo, vuol dire ripensare l’umano, non solo le donne o ciò che lei chiama, con una locuzione interessante ripresa da Tiqqun, “sciopero umano”. Scrive: “Nella fine della storia d’amore con Pietro Consagra raccontata in Vai pure accade qualcosa che ha una dimensione universale, Lonzi riesce magistralmente a mostrare come il personale sia politico, ma anche come il lavoro dell’artista possa diventare il peggior nemico della libertà delle donne, come l’artista sia un lavoratore più alienato di un impiegato qualsiasi, come le sue illusioni distruggano i rapporti umani, li vampirizzino o li oggettivino nel peggiore dei casi. E’ qui che la posizione femminista si manifesta come uno sciopero –che noi chiamiamo sciopero umano- contro l’organizzazione della vita maschile che tende a coincidere con la sua componente professionale”. Qui, ovviamente, si dipana tutto quel bisogno di “disfare” la critica d’arte come lavoro, così come dello stesso lavoro di artista qualora anziché fare leva autentica sul sé, assumendosi l’imprevisto come perdita e acquisizione al contempo, ci si accontenti di un ruolo, di una rappresentazione scenica del cosiddetto lavoro culturale costringendo l’altro o l’altra ad avere il suo.

Il saggio denso di Giovanna Zapperi, invece, disfa la scissione tra le due Carla collocandosi lungo la linea di risignificazione del tempo. Riprendendo soprattutto “Autoritratto”, Giovanna ci dice che “fare la storia” vuol dire incepparsi nella stessa concezione lineare del  tempo. Rompere la linea cronologica della storia e della storia dell’arte in particolare, nell’esperienza di Carla ha voluto dire anteporre il tempo della vita a quello della stessa storia assumendosi ogni imprevisto, così come ha voluto dire risignificazione della stessa a partire da uno scombinamento, da un procedere per ordine di stimolo e di desiderio, anziché di tempo. Per dimostrarlo utilizza, come esempi, alcune forme attraverso cui la parola di Carla si è data: l’uso del registratore per le conversazioni e i dialoghi  –perché riascoltare è dare spazio all’eco in grado di trattenere ciò che si può perdere- dunque l’autenticità della relazione;  il diario non come mera trascrizione del quotidiano, ma come spazio entro cui può irrompere di tutto, come esperienza trasformativa che traduce la vita attraverso accadimenti improvvisi che rimettono in gioco tutto, “sogni, lettere spedite e non spedite, poesie, ricordi, incontri, fotografie, desideri e conflitti”; le foto, le immagini non come esposizione di sé, ma come forma narrativa del carattere intimo del sé. Tutte forme narrative che eccedono i canoni dati e che riportano a quell’esperienza della vita come opera.

Infine il saggio di Francesco Ventrella che rimette in circolo il concetto di “risonanza”  presente nelle opere di Carla come apertura all’ascolto, al dialogo come gesto che scombina il monologo e il bisogno di “spettatorialità” a cui tende la cultura maschile di tipo patriarcale, da cui certo non possono dirsi scevre molte donne. Molto interessante anche il parallelo che Ventrella fa tra il bisogno di Carla di decostruire l’idea di cultura di massa veicolata dalla critica dell’arte e l’opera di Roland Barthes, così come torna assai bene il suo soffermarsi sulla “voce” come ciò che eccede il suo darsi solo sotto forma di supporto alla parola e alla struttura del racconto, ovvero quel bisogno di portare anche il “somatico” nel “simbolico”. E’ molto importante che questa riscoperta diffusa della scrittura di Carla Lonzi prenda tante strade, anche su scala internazionale, andando essa stessa a travalicare i confini di un sapere “proprietario” o di un posizionamento preciso del femminismo italiano che a volte fatica a rigenerarsi, così come credo sia importante che questa diffusione di testi scritti per lei possa arrivare tra le mani di giovani studiose femministe perché il rischio di un femminismo che diventa “canone”, sapere-potere, disciplina è sempre molto alto. Soprattutto nell’era neoliberista della parcellizzazione dei saperi. Certo, Carla scriveva e lavorava negli anni ’70, ovvero in un contesto assai mutato rispetto al presente, un contesto in cui il gesto politico era ancora determinante nella costruzione delle relazioni sociali e d’amore, v’era densità, desiderio di politica e di quell’autentico come scandalo un po’ ovunque, però credo sia indiscutibile anche la forza dirompente che possa avere una sua rilettura oggi. Un tempo presente in cui i bisogni materiali diventano persino più impellenti dei desideri, o un tempo in cui il desiderare stesso diventa difficile, talvolta persino impossibile è anche e soprattutto un tempo in cui occorre fermarsi e fare genealogia. E se il femminismo deve fare genealogia, non può che ripartire da lei, da quella potentissima rivolta della vita per rilanciare la politica come creatività, come spazio della relazione, ma anche e soprattutto come un farsi e disfarsi di soggetti imprevisti, di soggetti che si danno al di là della rimozione dicendo sempre la verità sul potere.

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