Recensione di Anastasia Barone
Il libro di Helen Hester costituisce un approfondimento esteso del Manifesto Xenofemminista, e rappresenta, come l’autrice tiene a ricordare, una visione parziale di un progetto collettivo. Il testo offre, a mio avviso, numerosi elementi di riflessione che vale la pena prendere sul serio, e pone con estrema onestà una serie di interrogativi schietti riguardo le contraddizioni con cui spesso ci confrontiamo nella pratica politica femminista. Per questo, anche se questo “bricolage di cyberfemminismo, postumanesimo, accelerazionismo, neorazionalismo, femminismo materialista e altro ancora” può suscitare scetticismo e spaesamento, il libro merita a mio avviso di essere letto e discusso. Resta da capire, però, in che modo l’ipotesi xenofemminista sia in grado di riflettere criticamente sul posizionamento di chi la promuove. Grande assente, infatti, in questa riflessione sul rapporto con il sapere scientifico e le tecnologie, risulta ogni prospettiva critica nei confronti delle definizioni occidentali di modernità e scienza. A ciò si lega, inevitabilmente, l’atteggiamento prometeico nei confronti della natura, che dove sfida coraggiosamente le pratiche di “naturalizzazione” che si appoggiano sulla biologia (se la natura è ingiusta, cambiala!), finisce con il riproporre un approccio alla natura, ai corpi, ai soggetti che non mette mai in discussione il calco occidentale e coloniale.
Tema centrale del libro è quello della riproduzione biologica e sociale, cruciale per qualsiasi riflessione femminista, e riproposto qui dal punto di vista delle possibilità (e delle contraddizioni) offerte dalle trasformazioni e innovazioni tecnologiche contemporanee.
Il primo capitolo offre una definizione di che cosa sia lo xenofemminismo, riassumibile come progetto antinaturalista, tecnomaterialista e abolizionista del genere.
Riferimento centrale qui è Shulamit Firestone con la sua Dialettica dei sessi. Tecnomaterialismo è il termine indicato per sottolineare il rapporto dello xenofemminismo con le tecnologie: queste ultime devono considerarsi come strumenti che possono essere utilizzati per una politica femminista emancipatoria, poiché esse sono prodotte dai rapporti sociali e in quanto tali il loro scopo può essere sovvertito, anche quando la matrice che le genera o l’uso principale che ne viene fatto è oppressivo.
Anche se la prospettiva del libro di Hester risulta, rispetto al Manifesto, più schiettamente consapevole delle contraddizioni e dei possibili limiti di una visione puramente ottimista nei confronti delle tecnologie, rimane netta la convinzione condivisa con le compagne che “gli strumenti del padrone possono distruggere la casa del padrone”. Come risulta chiaro, però, dall’ultimo capitolo, di cui parleremo tra poco, Hester ha anche la capacità di spiegare nel dettaglio e offrire degli esempi di ciò che si intenda per un uso transfemminista o xenofemminista delle tecnologie.
Abolizionismo del genere significa puntare a un mondo in cui ciò che viene considerato come genere non abbia più un’influenza sociale normativa. Ciò deve avvenire non attraverso la sparizione dei generi ma attraverso la loro proliferazione e moltiplicazione.
È invece già sulla definizione di antinaturalismo che sorgono, a mio avviso, i primi problemi. Riprendendo le parole del manifesto, infatti, si afferma che “Il nostro destino è legato alla tecnoscienza, dove nulla è tanto sacro da non poter essere riprogettato e trasformato in modo da allargare la nostra prospettiva di libertà, estendendola al genere e all’umano. Dire che nulla è sacro, che nulla è trascendente, né può essere sottratto alla volontà di conoscere, ritoccare, di hackerare, significa dire che nulla è sovrannaturale. La “Natura” – qui concepita come campo sconfinato della scienza – è tutto ciò che c’è.”.
Se la critica alla dicotomia tra natura e cultura, tra naturale e in-naturale ha una storia di resistenze, anche e soprattutto femministe, la citazione del manifesto usata da Hester risuona a mio avviso straordinariamente radicata nell’approccio della modernità occidentale, con tutto ciò che ne consegue. Ne è sintomo, a mio avviso, la leggerezza con cui viene immediatamente dopo liquidata la posizione di Marie Mies e Vandana Shiva quando sostengono che “l’intero paradigma della scienza è tipicamente patriarcale, contrario alla natura e coloniale, e mira a espropriare tanto le donne quanto la natura delle loro capacità generative.” (p.23). Se i rischi delle posizioni essenzialiste di una parte dell’ecofemminismo sono talvolta lampanti (e sono per altro stati presi in considerazione all’interno delle analisi ecofemministe stesse), qui viene semplicemente ignorato il senso di una critica radicale anti-coloniale e femminista della scienza.
Si capisce, tuttavia, il senso dell’operazione, radicata nel pensiero queer, sintetizzata da una citazione del Manifesto “Chiunque sia stato ritenuto “innaturale” a fronte delle norme biologiche dominanti, chiunque abbia sperimentato le ingiustizie compiute in nome dell’ordine naturale, si renderà conto che il culto della “natura” non ha nulla da offrirci – le persone queer e trans tra di noi, le diversamente abili, così come chi ha sofferto discriminazioni a causa di gravidanze o doveri relativi alle cure parentali”. E ancora “La biologia non è il destino perché la biologia stessa può essere trasformata con la tecnologia e dovrebbe essere trasformata per poter perseguire la giustizia riproduttiva e la trasformazione del genere in senso progressista.” (pp. 28-29)
Il rischio, però, è quello di promuovere un’ennesima dicotomia tra una natura sacra e una, invece, dominabile, trasformabile. Come se la natura potesse essere un elemento passivo all’interno di una riflessione che guarda allo xeno, all’alieno, all’altro, anche non umano.
Il secondo capitolo si intitola Futurità xenofemministe. In esso l’autrice pone il problema della visione del futuro e cerca di rispondere alla domanda : Come si può proporre una politica di genere che guardi al futuro e prenda sul serio le circostanze contemporanee senza cadere nella trappola di un conservatorismo oppressivo o di una debilitante disperazione? (p. 41)
Si tratta quindi di considerare “visioni del futuro che non si basino né sulla prescrizione né sulla proscrizione della riproduzione biologica” (p.13).
Il capitolo prende le mosse dalle riflessioni di Lee Edelmann nel suo No Future: Queer Theory and the Death Drive e in particolare dalla polemica nei confronti del ruolo retorico, ideologico, simbolico e profondamente politico della figura del bambino come emblema di una visione del futuro eteronormativa in cui “il bambino continua ad essere l’orizzonte perpetuo di ogni politica ammessa, il fantasmatico beneficiario di ogni intervento politico”, a discapito degli adulti e di chiunque non partecipi dell’imposto futuro riproduttivo.
Hester collega queste riflessioni sul Bambino di Edelman all’attivismo ambientalista e sul cambiamento climatico, includendovi anche alcuni aspetti della prospettiva ecofemminista che, sostiene, talvolta poggia su un’immagine essenzializzata del rapporto tra donne, maternità, cura e tutela dell’ambiente, della terra e della natura.
All’altro capo del filo stanno, secondo Hester, le posizioni ambientaliste e ecofemministe che legano la difesa dell’ambiente alla figura della donna generatrice, o che promuovono un’idea di futuro unicamente legata alla riproduzione e ai bambini.
Se le posizioni ecofemministe quindi, sostiene Hester, rischiano di renderci complici di una futurità riproduttiva che ha come orizzonte il bambino, l’ipotesi di Edelman rischia invece di schiacciarci all’interno di un’ipotesi puramente passiva del No Future che ricalca quella del There is no alternative. A fare da contrappunto a questi poli viene quindi chiamato José Esteban Muñoz che in Cruising Utopia. The then and there of queer futurity, riconoscendo l’eteronormatività del futuro riproduttivo, sostiene che sia “importante non consegnare la futurità alla futurità riproduttiva normativa bianca. La modalità dominante di futurità risulta, infatti, “vincente”, ma questa è una ragione in più per fare appello a un’immaginazione politica utopica che ci permetta di scorgere un altro tempo e un altro spazio : un “non ancora” in cui i giovani e le giovani queer di colore riescano davvero a crescere”. (p. 59)
Hester torna allora ad Haraway e al suo invito e generare parentele e non bambini, per praticare un femminismo che “si prenda più cura delle creature affini come gruppi, non delle specie una alla volta”. L’invito di Haraway Make kin, not babies! Ci provoca interrogandoci sulle possibilità di costruire legami diversi, non centrati sulla genealogia e la discendenza sanguigna, e nemmeno centrati sulla propria specie.
Hester riconosce il rischio di posizioni strettamente anti-nataliste e riporta il dibattito generato anche dalla posizione di Haraway, includendo le critiche ad essa mosse. Generare parentele, per Hester, ha allora senso se significa “dare la precedenza alla generazione di nuovi tipi di reti di supporto, anziché alla sconsiderata replicazione dell’identico”..affinché sia di nuovo “possibile concepire dei futuri che vadano oltre la casa, la famiglia e il Bambino così come li conosciamo”. Tuttavia, “Questo passo non può prendere la forma di un disprezzo punitivo verso le scelte riproduttive di altre persone (il che andrebbe contro ogni idea di giustizia riproduttiva), né di una campagna monotematica a favore del controllo della popolazione. Deve essere, piuttosto, fondato sulla xeno-ospitalità, sull’estensione di scelte attualmente limitate e sulla creazione di infrastrutture ideologiche e materiali necessarie a incorporare nuovi desideri come scelte accessibili e praticabili. Questa lotta è necessariamente orientata al post-capitalismo”. (p. 69)
Qui Hester si inserisce in un dibattito alquanto spinoso, cercando di problematizzare le posizioni più radicali. Ancora una volta, però, il rischio è quello di una prospettiva lineare che non tiene conto dei molteplici campi di forza in azione. Il problema, infatti, è pensare che basti avere nuclei familiari meno numerosi per essere in grado di produrre legami diversi.
Su un testo apparso su Effimera e sul blog di Les Bitches[1], Hester proponeva quasi integralmente il capitolo poi pubblicato nel libro, con alcune aggiunte significative. Si tratta infatti di un’analisi delle potenzialità del cambiamento demografico nel Nord Globale. Nel discutere delle effettive potenzialità di un mutamento culturale nell’approccio alla riproduzione, sulla scia del make kin not babies, l’autrice arriva a citare gli studi di economisti e consulenti di politiche pubbliche della Germania che valutano come positivo per l’economia “l’afflusso di sangue giovane” di migranti e rifugiati.
“Per quanto crei disagio quantificare la miseria umana nel registro contabile, sembrerebbe che la crisi demografica abbia il potenziale di agire come una leva per trovare una risposta etica alla crisi umanitaria. .. Se i tassi di natalità del “primo mondo” vengono soppressi, cioè, se è possibile sviluppare una cultura alternativa a quella che feticizza la riproduzione biologica, allora ciò costituisce potenzialmente uno strumento da utilizzare nel tentativo di costruire un Nord del mondo più ospitale per lo xeno. C’è da augurarsi che questo cambiamento di atteggiamento sopravvivrà a lungo oltre la crisi, contribuendo a far crollare le mura della “Fortezza Europa” una volta per tutte. Afferma, poi, “per essere chiara, non sto suggerendo che i cambiamenti demografici siano un proiettile d’argento contro la xenofobia. Certamente, non potranno generare cambiamenti significativi senza affiancarsi alla lotta politica e alla contestazione a lungo termine. Sto semplicemente suggerendo che questi cambiamenti possono agire come meccanismo per spostare l’orizzonte del dibattito sulle migrazioni e quindi offrire un nuovo strumento per la “cassetta degli attrezzi” dell’attivista”. Ciò che tuttavia risulta altamente problematico, malgrado la giustificazione preventiva, è il rischio di ignorare il razzismo che si cela (pur così evidente!) dietro questi discorsi demografici relativi alla forza-lavoro giovane e migrante. Sembra infatti piuttosto evidente che paesi a bassissimo tasso di natalità sperimentano tra le più feroci pratiche razziste, non rinunciando però a sfruttare alacremente la manodopera che supera i confini.
La nota positiva è che questa parte, presente nell’articolo online, non è stata inserita nel libro che qui recensiamo. Nel testo del libro, infatti, Hester si sforza di mostrare la consapevolezza del problema e cerca di spostare l’orizzonte del futuro verso l’ipotesi di alleanze (nel presente?), per esempio con le lavoratrici riproduttive, ma anche con i giovani che già ci sono, invece che con quelli che verranno.
Tecnologie xenofemministe:
L’ultimo capitolo costituisce la parte più lunga, densa e approfondita del libro. Obiettivo di questa sezione del testo è la trattazione delle sperimentazioni tecnologiche del passato, che potrebbero rappresentare esempi di tecnologie adatte a una politica xenofemminista. Hester torna qui agli anni ‘70 e in particolare al movimento per la salute delle donne negli Stati Uniti. Al centro di questa ricerca nel passato si situa lo strumento del Del-Em, utilizzato per estrarre il ciclo mestruale, riducendo così la durata dei dolori legati al ciclo ma utilizzato anche come metodo di prevenzione della gravidanza. Le caratteristiche che fanno del Del-Em un potenziale strumento per lo xenofemminismo sono quattro: l’aggiramento dei gatekeepers, il repurposing, la scalabilità e l’intersezionalità.
L’aggiramento dei gatekeepers sta, chiaramente, nel fatto che il Del-Em poteva essere usato senza richiedere l’intervento di esperti, medici, tecnici, necessitando soltanto di un livello di conoscenza ed esperienza facilmente acquisibile e trasmissibile. Il re-purposing, invece, riguarda la possibilità di usare le tecnologie esistenti per fini diversi da quelli per cui sono state create, reindirizzandole verso gli obiettivi femministi. Il Del-Em, in questo senso, non essendo acquistabile, era prodotto con oggetti d’uso quotidiano, modificati di senso.
L’intersezionalità è invece rappresentata dal modo in cui sia il Del-Em che la pratica del self-help hanno superato i confini delle cerchie di donne bianche di classe media e sono state riutilizzate anche da altri gruppi subalterni. A ciò si aggiunge il modo in cui le donne nere e razzializzate degli Stati Uniti hanno contestato i limiti di campagne sulla riproduzione concentrate unicamente sull’aspetto biologico, e hanno così espanso il senso della “giustizia riproduttiva” a tutti gli aspetti della vita delle donne.
Il punto più complesso, invece, è proprio la scalabilità. Quello che Hester chiama infatti il problema della scala, rappresenta, di fatto, il fulcro dell’analisi del rapporto con lo stato e con il potere.
Con scalabilità l’autrice intende la possibilità di passare dal micro-politico al macro-politico, o, per meglio dire, di situarsi in quella sfera che chiama meso-politico. Il Del-Em Il Del-Em è in questo senso considerato “ancora oggi un modello costruttivo (seppur parziale) per una politica di scala xenofemminista. Ovvero, offre delle indicazioni pratiche su come agevolare la creazione di una “rete fluida e intricata di transiti” nello spazio che si apre tra i livelli micro e macro della politica emancipatoria femminista” (p. 110).
Fin qui sembrerebbe, quindi, che il problema della scala sia quello del passaggio dall’individuale al collettivo, dal locale al globale, ovvero un problema di diffusione capillare, riproducibilità di una pratica e di uno strumento, accessibilità e proliferazione di entrambi.
Seguendo gli sviluppi del movimento del self-help, poi, l’autrice presenta un altro problema, situato all’interno della questione della scala. Si tratta infatti dei limiti di tutta una serie di pratiche di do-it-yourself e di vari esperimenti di autorganizzazione nell’ambito della riproduzione e della salute.
Si articola qui il problema, centrale nel movimento di self-help americano, ma anche in molte delle testimonianze relative alle esperienze dei consultori autogestiti e dei centri per la salute della donna in Italia. La pratica autonoma garantisce libertà ma finisce con il diventare alternativamente una cosa per poche, oppure insostenibile dal punto di vista delle energie richieste. Ancora, ed è questo forse il limite principale individuato nel Del-Em e nel self-help, non è realmente materialmente possibile prescindere dall’appoggio a infrastrutture mediche ed expertise che non sono altrettanto facilmente riproducibili o trasmissibili (e qui Hester cita il caso del Pap Test, così facile da effettuare in quanto test, ma molto difficile da “leggere” in quanto risultato).
Nelle pagine dedicate a questo tema, Hester definisce il livello situato tra micro e macro, ovvero il meso-politico come “vissuto, situazionale, continuamente negoziato e difficile da sintetizzare in principi astratti”.
Ma se il confronto con i limiti delle pratiche autorganizzate nell’ambito della salute e della medicina aveva aperto, già negli anni ‘70, la riflessione sul rapporto con lo stato e con il sapere scientifico specializzato e le pratiche mediche difficilmente accessibili, le pagine di Hester affrontano anche un tema diverso. In parte, infatti, la questione torna ad essere, per Hester, quella dell’egemonia, di una trasformazione in grado di colpire al centro. Da questo punto di vista le pagine finali del testo, in cui l’autrice ammette, con un’onestà e una trasparenza notevoli a mio avviso, che il problema sia un po’ quello di situarsi “tra il comunismo e l’anarchia”.
Qui allora il rapporto tra micro e macro risulta quello tra “gli interventi atomizzati e iperlocali, per esempio sul piano della corporeità individuale (micropolitica), e i progetti speculativi di vasta scala fondati sul completo rovesciamento di potere a livello statale od oltre (macropolitica) (p. 116).
Così, anche le pagine conclusive di Hester, così appassionanti nel riportare esperienza di transfemminismo capaci di recuperare l’idea di self-help in chiave transfemminista e intersezionale, si chiudono con una nota che, pur guardando in modo ottimista al futuro, considera queste stesse esperienze ancora insufficienti.
“Apprezzo la possibilità di riappropriarmi del self-help della seconda ondata e apprenderne le tecniche, ma in definitiva abbiamo bisogno di costruire futuri alternativi per la xenoriproduzione” (p.151).
[1] http://effimera.org/riprodurre-futuri-senza-futurita-riproduttiva-helen-hester/